Di Henry David Thoreau avevo già letto il celeberrimo Walden – ovvero Vita nei boschi, il
resoconto dei due anni che l’autore ha trascorso isolato come un eremita in una
capanna sperduta nella foresta sulle sponde del lago Walden.
In Camminare, scritto nel 1862 poco prima di morire ma elaborato sulla
base delle conferenze che teneva da più di dieci anni, Thoreau condensa gli
stessi tipi di pensieri che aveva più prolissamente trattato in Walden e in Disobbedienza Civile del 1849. Pensieri (e azioni, come il non
pagare le tasse) che lo avevano portato a trascorrere un certo periodo di tempo
nelle patrie galere.
Stessi pensieri (Viva la
natura! Abbasso la civiltà! Ma non solo…), stessa enfasi e stessa logorrea
letteraria stavolta confinata in sole sessanta pagine. Del resto da un teologo
seguace e amico di Ralph Waldo Emerson,
per di più fine oratore, non è che ci possa aspettare una gradita concisione.
Ma se un lettore paziente riuscisse a sopportare l’enfasi dilagante e la
ridondanza di una buona dose di ingenuità filosofica, allora si accorgerebbe
che i concetti di Thoreau sono tranquillamente condivisibili anche se un po’
datati: l’economia di cui parla è quella della metà dell’Ottocento, così come
l’espansione urbanistica e demografica. Di sicuro, guardando come oggi i
problemi che lui condanna siano ormai arrivati all’esasperazione, il teologo si
reputerebbe soddisfatto di essere morto centoquarant’anni fa.
Il “camminare” che da il
titolo all’opera viene da Thoreau inteso non come una passeggiatina intorno a
casa o un giretto a ritmo di jogging,
ma come un vero e proprio perdersi nella natura incontaminata, sapendo quando
si parte ma non quando si ritorna, con il segreto intento di partire per non
tornare e continuare a girovagare senza meta cercando di evitare anche il
minimo contatto con la civiltà (qui in Italia una cosa del genere mi sembra un
pelino difficile). Per Thoreau il camminare rappresenta un modello di vita, il
desiderio di una liberazione dal malessere che si avverte nelle proprie
esistenze.
Ma di certo alcuni dei
concetti esposti sono del tutto veri, a partire da quelli più trascendentali
per finire con i pensieri più terra terra:
“Vivere
molto all’aperto, nel sole e nel vento, può senza dubbio produrre una certa
ruvidezza di carattere, può far crescere uno strato di pelle più spessa non
solo sul viso e sulle mani, ma anche su alcune delle qualità più squisite della
nostra natura, nello stesso modo in cui un lavoro manuale pesante toglie in
parte delicatezza di tocco alle mani.”
Non posso fare a meno di
identificare in questa affermazione qualcuno di mia conoscenza.
Il Lettore
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