mercoledì 11 dicembre 2013

Camminare

Di Henry David Thoreau avevo già letto il celeberrimo Walden – ovvero Vita nei boschi,  il resoconto dei due anni che l’autore ha trascorso isolato come un eremita in una capanna sperduta nella foresta sulle sponde del lago Walden.


In Camminare, scritto nel 1862 poco prima di morire ma elaborato sulla base delle conferenze che teneva da più di dieci anni, Thoreau condensa gli stessi tipi di pensieri che aveva più prolissamente trattato in Walden e in Disobbedienza Civile del 1849. Pensieri (e azioni, come il non pagare le tasse) che lo avevano portato a trascorrere un certo periodo di tempo nelle patrie galere.
Stessi pensieri (Viva la natura! Abbasso la civiltà! Ma non solo…), stessa enfasi e stessa logorrea letteraria stavolta confinata in sole sessanta pagine. Del resto da un teologo seguace e amico di Ralph Waldo Emerson, per di più fine oratore, non è che ci possa aspettare una gradita concisione. Ma se un lettore paziente riuscisse a sopportare l’enfasi dilagante e la ridondanza di una buona dose di ingenuità filosofica, allora si accorgerebbe che i concetti di Thoreau sono tranquillamente condivisibili anche se un po’ datati: l’economia di cui parla è quella della metà dell’Ottocento, così come l’espansione urbanistica e demografica. Di sicuro, guardando come oggi i problemi che lui condanna siano ormai arrivati all’esasperazione, il teologo si reputerebbe soddisfatto di essere morto centoquarant’anni fa.
Il “camminare” che da il titolo all’opera viene da Thoreau inteso non come una passeggiatina intorno a casa o un giretto a ritmo di jogging, ma come un vero e proprio perdersi nella natura incontaminata, sapendo quando si parte ma non quando si ritorna, con il segreto intento di partire per non tornare e continuare a girovagare senza meta cercando di evitare anche il minimo contatto con la civiltà (qui in Italia una cosa del genere mi sembra un pelino difficile). Per Thoreau il camminare rappresenta un modello di vita, il desiderio di una liberazione dal malessere che si avverte nelle proprie esistenze.
Ma di certo alcuni dei concetti esposti sono del tutto veri, a partire da quelli più trascendentali per finire con i pensieri più terra terra:
“Vivere molto all’aperto, nel sole e nel vento, può senza dubbio produrre una certa ruvidezza di carattere, può far crescere uno strato di pelle più spessa non solo sul viso e sulle mani, ma anche su alcune delle qualità più squisite della nostra natura, nello stesso modo in cui un lavoro manuale pesante toglie in parte delicatezza di tocco alle mani.”
Non posso fare a meno di identificare in questa affermazione qualcuno di mia conoscenza.
Il Lettore

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