sabato 19 luglio 2014

Trilogia della città di K.

Ho cominciato a leggere questo libro una mattina presto, e prima di pranzo ne avevo già divorato la metà: non riuscivo a staccarmi dalle sue pagine.

Sarà stata la vicenda, l’uso ossessivo del presente indicativo che velocizza, il narrare in prima persona (anzi, in prima persona plurale) che accelera, le frasi secche, aspre e scioccanti che determinano un ritmo incalzante, la lucidità e la spietatezza dell’autrice nel raffigurare gli orrori quotidiani della guerra, ma questa lettura ha saputo prendermi come poche altre.


Per onestà dirò subito che dalla seconda metà del romanzo centrale il ritmo rallenta e i periodi si fanno più lunghi e articolati consentendo un più ampio respiro. Ciò è spiegato in parte dall’intenzione di Agota Kristof di rendere, all’inizio del Il grande quaderno, il pensiero semplice e crudo dei due bambini narranti, ma anche dal suo non padroneggiare perfettamente la lingua francese nella quale ha scritto tutti i romanzi. Con il crescere dei protagonisti, e con il procedere della scrittura nell’arco dei cinque anni che ha impiegato a scriverlo, è migliorato da parte sua anche l’uso della lingua realizzando una stesura di parecchio più complessa.
E per questo non lo celebrerò come un capolavoro, come è stato invece definito dalla stragrande maggioranza delle persone che lo hanno letto: secondo me, per poter affermare che un libro è un capolavoro bisogna prima capirlo, e io non ci sono riuscito, come non ci sono riusciti tutti gli altri che lo hanno letto. Sono convinto che chi sostiene di averci capito qualcosa sia un emerito bugiardo. Se l’autrice si fosse limitata a scrivere il primo romanzo avrebbe potuto veramente assurgere al ruolo di grande scrittrice, ma con i successivi ha complicato le vicende in una maniera inesplicabile, alla quale è difficile trovare una giustificazione. I critici, naturalmente, ci riescono, attribuendo alla confusione dei ruoli dei protagonisti il significato della difficoltà di collocare il proprio ruolo di origine, ma a me sembra francamente un concetto tirato per i capelli, di quelli che possono uscire solo dalla bocca di un critico. Di questo libro, tutte le persone normali non hanno capito una mazza.
Il racconto è contestualizzato in un non ben definito paese dell’est europeo (con i caratteri propri dell’Ungheria patria dell’autrice), teatro di guerre, invasioni e rivoluzioni con al seguito tutte le tragedie sociali e personali che le accompagnano, e si sviluppa su tre romanzi che descrivono le vicende di due gemelli che finiscono con il rappresentare le vittime di tutte le guerre. Guerre e regimi che distruggono cose, persone, sentimenti, vite.
Ma attenzione, non ci si trova in presenza di una narrazione lineare, perché nel secondo romanzo, La prova, cambia il narratore e sono stravolti i ruoli dei precedenti protagonisti, e nel terzo, La terza menzogna, i protagonisti sono gli stessi ma con ruoli, storie e precedenti ancora una volta modificati, fino al punto da non riuscire più a dare a nessuno un’esatta collocazione.
Si prova un senso di difficoltà nel seguire il dipanarsi della vicenda, perché nonostante i protagonisti rimangano gli stessi cambiano le loro ambientazioni e il loro stesso passato. Si resta confusi e non si sa più se dare per buono ciò che è già acquisito o rimettere tutto in discussione considerando ognuno dei tre romanzi come un’opera a sé stante avulsa da una continuità, pur rimanendo fedele al contesto generale.
Il libro nel suo complesso sconvolge e scandalizza, è potente, inquietante, ma arrivati alla fine rimangono numerosi punti oscuri e non si capisce il perché l’autrice abbia modificato di continuo le premesse fino ad incastrare i fatti in una collocazione astrusa, come se si volessero inserire quadrati in forme triangolari. Alla fine emerge solo che non esiste una sola realtà, il tutto è al limite della pazzia contenuta in una delirante immaginazione, come se fossero vicende ambientate su universi paralleli che possono anche essere quelli mentali.
A posteriori provo un certo senso di rimpianto per non essermi limitato a leggere solo il primo dei tre romanzi, il migliore, sia come coerenza che come stile e piacere di lettura, e di certo non avrei sentito la mancanza dei successivi che al contrario hanno finito con l’inquinare il piacere provato all’inizio.
Il Lettore 

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