Questo di Guillaume Musso è un romanzo che può
piacere solo a lettori decerebrati,
di quelli che non hanno mai visto mondo in vita loro e soprattutto che non
hanno mai letto un libro come si deve.
La cosa che non finirà mai
di stupirmi sono i milioni di copie vendute, e ciò sta a significare che di
gente dai gusti pessimi al mondo ce
ne sta tanta. Dopo gli ultimi due buoni romanzi che ho letto questo è stato
come il dessert rancido che rovina un
buon pranzo.
Brutto, ma proprio brutto.
Ho veramente faticato a
terminarlo, saltando spesso anche interi paragrafi o leggendone solo l’inizio,
ma ho voluto arrivare in fondo per capire senza dubbio alcuno in quale abisso
di abiezione ha voluto gettarsi l’autore.
Vogliamo parlare dello
stile? Ributtante. Veramente banale, fatto di aggettivazioni non necessarie (l’imponente auto sportiva… il tavolo giavanese in tek…), di melense metafore
trite e ritrite (la nostra adolescenza mi
tornò in mente con la forza lacerante di un boomerang…), di continue,
inutili precisazioni, come specificare che Kind
of blue è un capolavoro del jazz
composto da Miles Davis, alla faccia
dell’ellisse. E il bello è che il protagonista lo specifica a se stesso visto che la narrazione, o
perlomeno una parte di essa, è in prima persona. Come se io pensassi tra me e
me: bene, in questo momento mi va proprio
di sentire il fantastico Heavy Weather,
il disco registrato nel 1977 dai Weather
Report il cui mitico bassista Jaco
Pastorius (che però di nome si chiamava John Francis Anthony) è morto in
seguito all’emorragia cerebrale conseguente a un pestaggio subito fuori di un
bar della Florida. A Fort Lauderdale, per la precisione. E quello che l’ha
pestato si chiamava Luc Havan. Costui era il buttafuori del locale e…
E volendo potrei continuare
con i perché e i percome, ma è assolutamente ridicolo: quando ascolto un album
non mi metto a rammentare a me stesso questi particolari. A meno che io non sia
un autore saccente che vuole soddisfare un determinato tipo di pubblico
ignorante e poco pretenzioso.
E la saccenteria continua
con: 1) le citazioni all’inizio di
ogni capitolo che distolgono l’attenzione dalla vicenda (ma questo potrebbe
anche essere un bene…); 2) le ulteriori citazioni
sul leggere o sullo scrivere delle quali è infiorettato tutto il testo; 3) lo
specificare la collocazione di ogni
scena a scena già iniziata, utilizzando una formattazione in grassetto fuori
paragrafo; 4) il far girovagare
senza scopo i personaggi per tutto il mondo come a dire guarda quanti posti conosco! (salvo che poi magari per documentarsi
se li è andati a cercare su google maps).
Un romanzo costituito da una banalità dietro l’altra, alternate
a trovate che non stanno né in cielo né in terra e condite da episodi che
vorrebbero essere strappalacrime se non fosse che si sente che sono falsi come
una banconota da 12 euro (tanto per restare in tema di metafore scontate) e
costruiti apposta per emozionare gli sprovveduti. Situazioni surreali, quasi
fantascientifiche (della fantascienza brutta, però…) come quando nel bel mezzo
di una serie di tragedie viene in mente ad un personaggio che dovrebbe cambiare
la carta da parati (che tra l’altro non si usa più da decenni).
Oltretutto l’autore fa
esattamente ciò che nei miei corsi sconsiglio di fare: di ogni personaggio che
entra in scena ne descrive fattezze, vestiario, trascorsi biografici e
pensieri, provocando unicamente una noia infinita.
Tra l’altro da qualche
parte del libro ho incontrato un tipo di refuso mai visto prima: “no,n” al
posto di “non”.
Basta. Resta il fatto che
una puttanata del genere ha venduto milioni di copie, e questo ti fa chiedere
se alla fine non abbia ragione lui a scrivere così.
Il Lettore
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