Nel corso di una
conversazione con un’amica era venuto fuori che a lei piaceva molto questo Jo Nesbø, del quale avevo sentito
parlare ma non avevo mai letto nulla di suo. Sapevo che aveva scritto una serie
di thriller che avevano riscosso un
certo successo e questo, insieme alla curiosità scatenata in me dai commenti
della mia amica (non so resistere quando mi consigliano un autore, è più forte
di me…), mi ha portato ad accattare
il primo Nesbø che mi è capitato sotto mano.
Tra i problemi grossi dei
romanzi scandinavi, come mi pare di avere già scritto da qualche altra parte, ci
sono questi cazzo di nomi propri che
non riesci né a leggere né tantomeno a farti entrare nella memoria sia pure a
breve termine: Kvinesland, Ottersen, Borghild, Trygve, Ǿistein, Seilduksgata,
Lossius, Nesoddtangen, e fai una fatica bestia sia a pronunciarli fra te e te
che a ricordare che ruolo abbiano all’interno della narrazione o se siano il
nome di un personaggio o di una città. Ma quel furbino dell’autore, che con tutta
probabilità è a conoscenza di questa difficoltà che affligge i non-norvegesi,
al protagonista seriale dei suoi romanzi ha messo un nome inglese: Harry Hole, semplice, corto e facile da
ricordare. Chiamalo stupido.
Questo L’uomo di neve è costruito più con la tecnica che con il cuore,
sulla falsa riga di un maestro del “sopra le righe” come Jeffrey Deaver. Il protagonista
è studiato a tavolino: un poliziotto che spicca per intelligenza, prestanza
fisica e interesse, ma è notevolmente sfigato e con un mucchio di problemi personali
che non hanno altro scopo che intenerire il lettore e renderlo partecipe delle
angosce di Harry Hole, per farlo
affezionare a lui e quindi fargli comprare tutta la serie di romanzi.
L’antagonista di Harry è un serial killer intelligentissimo, di una
crudeltà veramente fuori dal comune, un genio che non si fa mai vedere, che è
sempre nel posto giusto al momento giusto, sempre un passo avanti a tutti altri;
è straordinario come risulti sempre invisibile ma riesca ogni volta a costruire
dei pupazzi di neve nei luoghi dei suoi delitti senza lasciare la minima
traccia e senza essere visto da nessuno. Non è solo un efferato assassino, è Mandrake stesso.
Che poi con tutta questa
genialità alla fine lo beccano comunque.
Questo gruppo di autori scandinavi che si sono dedicati
al thriller, e che da qualche anno stanno scalando le vette delle classifiche
librarie, sembra abbiano studiato a fondo le tecniche messe a punto dai giallisti americani più esagerati e meno credibili: delitti
perpetrati nei modi più orribili e immaginifici, continui colpi di scena,
reiterate apparizioni di indizi fuorvianti, individuazione di colpevoli che non
si rivelano tali, insistente inserimento di brevi scene colme di atmosfere
preoccupanti indirizzate a far lievitare nel lettore uno stato di angoscia (un
po’ come nei film di Alfred Hitchcock,
quando si apre lentamente la porta accompagnata da una musichetta subdola, tu
ti aspetti la comparsa dell’assassino e invece entra il gatto), crescendo di
tensione e apoteosi finale. Senza dimenticare l’inclusione qua e là di brevi
pizzichi di situazioni erotiche che non ci stanno mai male.
Jo
Nesbø riesce abbastanza
bene ad amalgamare tutto ciò, sicuramente meglio di quella docente di narcolessia che è Camilla Läckberg, e costruisce un romanzo tutto sommato leggibile,
ma alla fine la sensazione è quella che abbia veramente esagerato nei toni e
nelle motivazioni relegando la plausibilità della storia tra le cose per lui
meno importanti. D’accordo fare colpo, ma quando è troppo è troppo. Peccato che
non possa scendere nei particolari, avrei voluto raccontarvi la scena finale
del romanzo per farvi capire a quali vette di esagerazione è asceso l’autore:
proprio non sta né in cielo né in terra, né è minimamente credibile da un punto
di vista realistico.
A parte il fatto che, ad onta
delle reiterate false piste o forse proprio per questo, già da prima della metà
del romanzo avevo capito chi tra i personaggi fosse il serial killer.
Vabbè. Laura, non te ne
dispiacere, ma il consiglio di lettura che mi hai elargito non mi è piaciuto
proprio. Ritenta ancora, forse sarò più fortunato…
Il Lettore (ancora una volta insoddisfatto)
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