Per leggere certi libri
bisogna raggiungere una certa età.
Questo romanzo dal titolo
splendido era l’unica cosa che mi
era rimasta da leggere di tutta la
produzione hemingwayana, compresi i romanzi postumi, gli articoli, le lettere e
le poesie, per non parlare delle biografie che hanno scritto su di lui. E non è
che non ci avessi provato. In passato lo avevo preso in mano e iniziato più
volte, fermandomi sempre dopo poche pagine perché non lo avevo mai ritenuto
abbastanza interessante da consentirmi di proseguire. Nonostante lo
desiderassi.
Stavolta sono arrivato in
fondo. Posso dire finalmente di aver letto tutto
Hemingway.
Ernest
Hemingway mette tutto il
personaggio “se stesso” in questo
libro che nel 1950 viene dato alle stampe dopo dieci anni di silenzio seguiti
all’uscita di Per chi suona la campana.
Dieci anni in cui ha scritto per i giornali, ha partecipato alla Seconda Guerra
Mondiale, ha scorrazzato per l’Oceano Atlantico sulla sua barca a caccia di
sottomarini tedeschi e ha effettuato battute di caccia in Africa.
E ce lo mette nel personaggio
di un ex generale ― retrocesso al grado di colonnello
― dell’esercito americano che ha partecipato sia alla Prima che alla Seconda
Guerra Mondiale e che sta facendo un viaggio in Italia subito dopo la fine di
quest’ultima. Richard Cantwell è
stato ferito più volte, oltre che con i tedeschi ha combattuto con la gerarchia
militare e con l’idiozia umana, e si ritrova deluso e amareggiato e con il
cuore che ha già subìto qualche infarto. Nonostante le sue condizioni di salute
siano precarie vuole rivedere la
città che ama, Venezia, e andare a
caccia di anatre in laguna, oltre
che passare un po’ di tempo, quello che egli pensa sia l’ultimo, con la donna
di cui è innamorato, la diciannovenne Renata.
Di
là dal fiume e tra gli alberi
è un romanzo che al momento della sua pubblicazione è stato molto criticato
soprattutto perché i lettori si aspettavano, dopo dieci anni di attesa, di
ritrovare lo stesso Hemingway di Per chi
suona la campana, e invece hanno letto di un vecchio soldato triste e
innamorato, demotivato, demoralizzato, rassegnato ad attendere la propria
morte, in una vicenda nella quale non accade assolutamente nulla e si dipana
tra infiniti dialoghi tra Cantwell e
Renata nelle calli e negli alberghi
di Venezia, persi entrambi in un amore che sanno essere senza futuro.
Non succede nulla, è vero, ma
Dio!, come l’ha saputo scrivere!
Ernest
Hemingway ha adoperato l’esatto
contrario dell’enfatizzazione: ha portato la semplicità di scrittura ai massimi
livelli in un inno alla concisione e
all’omissione. Leggere i suoi dialoghi è puro piacere, mai scontati o
banali, semplici, brevi ed essenziali, con la ripetitività del concetto di
amore a marcare l’importanza del sentimento. L’intero romanzo stesso è un atto
d’amore, oltre che per la reale Adriana
Ivancich (la Renata del romanzo), per Venezia e per l’Italia tutta nella
quale lo scrittore si trovava così bene. Una Venezia descritta da maestro: “Mentre
camminavano col vento alle spalle e i capelli di lei che sventolavano meglio di
qualsiasi bandiera, la ragazza gli chiese, stringendosi a lui: «Mi ami ancora
nella luce fredda e cruda del mattino veneziano? È proprio fredda e cruda,
vero?» «Ti amo ed è proprio fredda e cruda.» Alla faccia di quegli editor che non sopportano le ripetizioni.
Esplorando i temi dell’amore,
della guerra, dell’invecchiamento e della solitudine nell’avvicinarsi della
morte, Hemingway ha riempito il libro di simboli
e allegorie non esplicitati ma solamente lasciati intuire al lettore. Sembra
che voglia dire: se ci arrivi bene,
altrimenti chissenefrega, io non sto qui per doverti spiegare.
Quattro anni dopo la
pubblicazione di questo romanzo queste stesse tecniche “semplici”, riconfermate
in Il vecchio e il mare, gli frutteranno il Premio Nobel per la
letteratura.
È vero che nel romanzo
praticamente non c’è azione, ad eccezione di qualche breve racconto di guerra e
della caccia alle anatre finale (questa scena non me la sono goduta molto
perché sono arrivato ad essere decisamente contro
il concetto stesso di caccia, ma c’è da apprezzare comunque il modo in cui E.H.,
pur essendo stato un accanito cacciatore, tratta con infinita tenerezza gli animali come prede), ma
nonostante l’apparente piattezza questo
è uno dei libri che una volta letti non
si scordano più.
I personaggi di Richard Cantwell e di Renata restano impressi nella memoria
in modo indelebile e ci si trova spesso, anche dopo giorni, a rimuginare su
qualche passaggio del romanzo e sulle
simbologie che l’autore ha voluto inserirci.
Sarà che una volta passati i
cinquanta alla morte cominci a
pensarci seriamente, e forse è per questo motivo che un romanzo del genere va
letto solo dopo aver lasciato passare un congruo lasso di tempo dalla tappa del
mezzo secolo.
Il Lettore