venerdì 30 agosto 2013

L’arte del dubbio

Pubblicato dapprima dall’Editore Giuffrè nel 1997 con il titolo Il controesame: dalle prassi operative al modello teorico a firma di Giovanni Carofiglio (?! – fonte:  libreriauniversitaria.it), è stato riedito nel 2007 da Sellerio, dopo un rimaneggiamento servito a togliere le parti più pesanti del testo, e dopo che Gianrico Carofiglio era diventato famoso con i romanzi dell’avvocato Guerrieri.


L’arte del dubbio nasce quindi come un testo giuridico ed essenzialmente destinato agli addetti ai lavori nell’ambiente della giurisprudenza, e se si vuole incolpare Sellerio di aver cavalcato l’onda del successo per far andare in porto un’operazione commerciale be’, lo si potrà pure fare, ma resta il fatto che perlomeno non è stata una fregatura come se ne vedono tante nell’ambiente editoriale, perché a parer mio questa è un’opera il cui valore va ben oltre la media.
Il libro è in pratica un manuale sul come si dovrebbe condurre un interrogatorio giudiziario, in particolare sul controesame dei testi, e in fondo anche un manuale sull’arte della comunicazione, supportato da numerosi esempi di interrogatori tratti da processi reali che costituiscono in pratica una raccolta di racconti giudiziari. Vi si trattano temi delicati come il saper demolire o rafforzare una testimonianza, gli approcci psicologici alle diverse tipologie di teste, gli errori da evitare per perseguire gli scopi prefissati. Il lessico è tipicamente giuridico e molto ricercato, ma nonostante questo approccio giurisprudenziale Carofiglio è riuscito a rendere i concetti sufficientemente chiari da essere compresi anche da profani della materia (come me).
 Come ho iniziato a leggerlo l’ho letteralmente divorato, trovandolo una lettura piacevole e colta, estremamente interessante e che richiede solamente un minimo di concentrazione per capirne i concetti; concetti non di immediata fruizione, bisogna riconoscerlo, ma che sono esplicati ed alleggeriti da numerosi esempi nei quali molte volte fa capolino quell’umorismo che Carofiglio riversa anche nei suoi romanzi:
“Avvocato: E lei vuol farci credere che in queste condizioni è riuscito a vedere il mio cliente che staccava un piccolo pezzo di orecchio al suo avversario?
Teste: Ma io non l’ho visto mentre lo staccava…
Avvocato: Allora come fa a sostenere che…
Teste: … l’ho visto mentre lo sputava subito dopo…
Questo libro mi fornisce inoltre lo spunto per un’altra considerazione: uscendo dal tema per tornare ad indagare le complesse meccaniche che regolano i giudizi su IBS, come già fatto in passato su questo blog, basta dire che a L’arte del dubbio numerosi lettori hanno affibbiato un 1 (pessimo), motivando questa bocciatura via via nei seguenti modi:
1 – non avevo capito che non era un romanzo (alla faccia degli acquisti consapevoli!);
2 -  credevo fosse un romanzo (buongiorno…);
3 – troppo tecnico (ma guarda!);
4 – la trovo solo un’operazione commerciale (può anche essere che sia così, ma in ogni caso è il valore del libro che andrebbe giudicato);
5 – è un discutibile prodotto a tavolino confezionato per colmare un vuoto editoriale (???);
6 – è un saggio di procedura civile (peccato che tratti di interrogatori penali…);
7 – Carofiglio ha finito la vena creativa (ma non è quello dei suoi libri che ha scritto per primo?);
8 – mi aspettavo un romanzo, sono rimasta delusa (e perché? Un libro è buono solo se è un romanzo?);
9 - ho trovato “L'arte del dubbio” nella sezione thriller di una libreria di una grande catena nazionale e credo che questa sia pubblicità ingannevole (!!!);
10 - perché pubblicare in una collana dedita al romanzo un manuale "tecnico"? (e chi l’ha detto che “La Memoria” è dedicata “solo” al romanzo?);  
11 – ha sfruttato l’onda del successo (ma vogliamo giudicare il libro, o le intenzioni dell’autore?).
Sono allibito.
Questo tipo di giudizi testimonia come molti lettori non sappiano nemmeno cosa si apprestano a leggere, e sono pronti a massacrare (o viceversa ad osannare) un testo solo per sentito dire o per sensazioni fumose, non avendo la minima cognizione di causa su come quantificarne l’effettivo valore.
Il Lettore

mercoledì 28 agosto 2013

Ma perché spedirlo a un editore?

Mi è arrivato un ennesimo testo da valutare per una possibile pubblicazione. Lo scritto consisteva in una decina di pagine contenente ognuna tra i 3500 e i 4000 caratteri, in pratica quasi illeggibile senza ingrandire adeguatamente il foglio elettronico, e verteva sui pensieri dello scrivente in occasione della morte del proprio padre.
Ho iniziato a scorrerlo e mi sono subito reso conto che purtroppo di illeggibile non c’era solo il layout.
Oltre ad essere redatto in uno “stile” enfatico e altisonante, il testo era pieno zeppo di errori sia ortografici che grammaticali, come lettere maiuscole dimenticate, virgole alla come viene viene, segni di punteggiatura - come parecchi punti alla fine del periodo - del tutto mancanti, assenza di particelle pronominali dove invece necessarie. Nello spazio di poche righe si alternavano repentini cambi di registro e/o di tono: dal narrare in terza persona al rivolgersi direttamente al padre defunto, dallo scrivere distaccato al lasciarsi trasportare dalle emozioni, per non parlare delle numerose frasi senza senso alcuno e dei periodi senza costrutto.
Un vero sfacelo.

Ho retto per poche righe. Sono andato avanti saltando e leggiucchiando qua e là solo per accertarmi che fosse del tutto omogeneo nella sua illeggibilità e quindi ho archiviato il testo comunicando all’editore che per l’ennesima volta non era proprio il caso.


Ora, io capisco come la perdita di un genitore sia un evento tragico che colpisca in maniera profonda, incomprensibile e inconsolabile la coscienza di ciascuno di noi.
Capisco anche che ad una persona possa venire la pulsione di fermare sulla carta i sentimenti che ha provato in una simile occasione.
E capisco perfino che una persona questi pensieri li possa scrivere anche senza avere la minima cognizione di come renderla una lettura interessante, o anche che li voglia buttare giù come capita e poi mettere in un cassetto per trasmetterli, se ritiene sia il caso, alla propria discendenza. Anzi, è giusto che lo faccia, e capisco come questo sia un suo sacrosanto diritto.
Quante cose capisco.
Ma quello che non capisco è come a questa persona possa venire l’idea di ritenere che una “cosa” simile sia pubblicabile sotto forma di libro, o di pensare che possa interessare ad un editore, o di essere convinto che quest’ultimo ne debba rimanere affascinato ad onta della barbara presentazione e degli errori grammaticali.
È solo questo, che non capisco.
Il Valutatore

lunedì 26 agosto 2013

Acqua buia

Qualcuno ha indovinato?
Joe Richard Harold Lansdale è considerato da molti critici letterari di tutto il mondo come il miglior scrittore statunitense contemporaneo. Da alcuni di essi come il miglior scrittore contemporaneo in assoluto.

I suoi molteplici temi ricoprono un arco che va dalle problematiche adolescenziali allo squallore della  vita quotidiana nei sobborghi delle metropoli americane, dalle tensioni razziali alle ingiustizie sociali, dalle ambientazioni storiche alle arti marziali, dalla fantascienza ai fumetti, dal pulp più splatter alla comicità più irresistibile alle difficoltà di integrazione degli omosessuali. Lo spaziare tra tante argomentazioni e il suo stile particolarissimo ne fanno un artista poliedrico come pochi altri.


Quello che traspare chiaramente dalle sue opere è che lui si diverte veramente, a scriverle. Lo stile è semplice, le trame lineari così come le costruzioni sintattiche, il ritmo veloce e il linguaggio alla portata di tutti, ad eccezione forse di alcuni romanzi nei quali per entrare meglio nella realtà di alcune situazioni utilizza un lessico che va dallo scurrile fino allo sfacciatamente volgare, di quelli tipici della bettola più infima e che non gli consentirà certo di ottenere il Nobel per la Letteratura. Le vicende che Joe R. Lansdale racconta non hanno in genere nulla di complicato proprio perché sono solo pretesti per trattare gli argomenti che gli interessano veramente: discriminazioni razziali, stupidità umana, amicizia vera, processi di formazione individuale e identità sessuali.
Così come Cielo di sabbia e La sottile linea scura, Acqua buia può essere considerato un romanzo di formazione condito da una buona dose di noir e ambientato in quell’America di emarginati così cara a Lansdale così come lo è stata a Steinbeck e Faulkner, e il viaggio che intraprendono i tre protagonisti è in realtà un percorso che consente loro di varcare la soglia dell’adolescenza per sbarcare nell’inizio dell’età adulta. Nel libro si incontrano alcuni spunti di moderato umorismo e il linguaggio adoperato è del tipo accessibile a tutti, e il tono generale è di quel serio che scivola via come l’olio fino alla conclusione con annesso colpo di scena.
Se si vuole indagare il lato umoristico di Lansdale bisogna invece mettere mano alla sua saga forse più apprezzata, quella che sta rapidamente diventando un cult tra gli affezionati allo scrittore: in romanzi come Il mambo degli orsi, Mucho mojo, Rumble tumble e altri, Lansdale assegna il ruolo di protagonista ad una coppia di disperati che strepitosi è dire poco, una coppia che simboleggia l’amicizia più profonda e gli estremi che si incontrano.
Hap e Leonard sono due amici di quelli che più diversi tra loro non potrebbero essere: Hap è bianco, eterosessuale convinto, repubblicano e conservatore; Leonard è nero, democratico e omosessuale consapevole. In comune hanno la povertà, il cinismo, l’aderenza alla realtà, il desiderio di una giustizia equa, il sense of humour e la conoscenza delle arti marziali. Una coppia delineata con una maestria sopraffina che ha permesso a Lansdale di scrivere libri forti sia come impatto che come contenuti, estremamente ironici, politicamente non corretti e veramente spassosi. Una volta conosciuti, Hap e Leonard restano scolpiti nella memoria del lettore come personaggi indimenticabili.


Certo che per i contenuti forti e per l’altissima frequenza di parolacce, sangue ed espliciti riferimenti sessuali non sono proprio romanzi per stomaci deboli, benpensanti schizzinosi e lettori facili a scandalizzarsi, ma ditemi voi come si fa a non rimanere del tutto affascinati da un incipit come questo:
Quando arrivai da Leonard, la sera della vigilia di Natale, sullo stereo di casa sua c’erano i Kentucky Headhunters a tutto volume che cantavano The Ballad of Davy Crockett, e Leonard, come per una sorta di celebrazione natalizia, stava appiccando il fuoco ancora una volta alla casa accanto.”
Il  lettore ignaro non può assolutamente fare a meno di chiedersi: perché questo Leonard sta appiccando il fuoco “alla casa accanto”? E soprattutto, perché “ancora una volta”? E da qui all’arrivare in fondo al libro senza staccare gli occhi dalle pagine è veramente un attimo. E quelli invece che come me, per aver letto i romanzi precedenti, conoscono già le risposte ai due perché, non possono fare a meno di mettersi subito a ridere già da queste primissime righe.
Ah, questo incipit geniale proviene da Il mambo degli orsi, e mi perdonerete, ma una reminiscenza del poco pudore che ancora mi è rimasto mi impedisce di spiegarvi che cosa l’autore intende mostrare con la metafora utilizzata per questo titolo…
Il Lettore
PS: Per farvi capire qualcosa di più di Hap e Leonard devo assolutamente riportarvi anche questo breve e incredibile dialogo tratto da Una coppia perfetta:
Leonard si sedette, sorridendo, e cominciò a inzuppare i wafer nel latte.
“Allora, com’è andata?” gli chiesi.
“Mi hanno dato della checca.”
“Ma tu sei una checca.”
“Era il tono, che non mi è piaciuto.”
“E come facevano a saperlo, che sei una checca?” intervenne Brett.
“Ci ho provato con uno di loro, ma con molto tatto.”
Spettacolare, vero?

domenica 25 agosto 2013

Lo Squizzalibro di domenica 25 agosto

Seconda puntata dello Squizzalibro! Dai seguenti facili indizi cercate di indovinare il libro di cui parlerò nel post di domani:
1 – Ne parlerò mooolto bene (strano, vero?).
2 – L’autore è statunitense, molto famoso e molto esperto in diverse arti marziali quali boxe, wrestling, ju-jitsu, judo, hapkido, taekwondo, karate shotokan, corean yudo, muay thai, kung fu e aikido del quale ha creato lui stesso alcuni stili riconosciuti in tutto il mondo (personcina quindi alla quale risulta oltremodo salutare non causare fastidi).
3 – E’ un romanzo di formazione condito da una buona dose di noir.
4 – Tra i protagonisti ci sono un fiume, un cadavere trascinato di qua e di là, un secchio pieno di soldi, un dubbio predicatore e un assassino spietato.

5 – Il romanzo è stato pubblicato nel 2012 negli Stati Uniti e subito dopo in Italia da Einaudi.


Stavolta è proprio facile, e come per la prima puntata il premio in palio per tutti quelli che indovineranno è l’incommensurabile soddisfazione di averci azzeccato. Via con le risposte!
Freereader

venerdì 23 agosto 2013

Finalmente ho promosso un altro esordiente

Finalmente mi è capitato di promuovere un altro aspirante scrittore. Era dal novembre scorso che non succedeva.


È andata così: questo aspirante scrittore di poche parole, del quale per forza di cose dovrò tacere nome e titolo del manoscritto, ha mandato alla casa editrice una stringatissima lettera di presentazione allegando i primi tre capitoli del suo romanzo. Dopo qualche giorno che l’ho scaricato nel computer mi sono messo a leggerlo e, nonostante in un primo momento il capitolo iniziale non mi avesse “preso” del tutto, sono andato avanti perché la prosa era buona, il soggetto potenzialmente interessante e la tematica abbastanza attinente a quelle portate avanti dalla casa editrice.
Ho terminato i tre capitoli, cosa già abbastanza infrequente di per sé, con il desiderio di vedere come sarebbe proseguita la faccenda, e di conseguenza ho comunicato all’editore che sarebbe stato opportuno richiedere all’autore l’opera completa. L’editore ha inoltrato subito la richiesta e a stretto giro di posta elettronica ci è pervenuto l’intero manoscritto accompagnato da una frase ancora più laconica di quella che accompagnava il primo invio: “Mi fa molto piacere che siate interessati. Buona lettura.
Già uno che fa così ti predispone bene.
Appena trovato il tempo ho proseguito nella lettura e arrivato alla fine devo dire che non ne sono rimasto deluso: il libro si è dipanato coerentemente con le premesse senza inaspettati cali di qualità e, anche se non è che si possa gridare al capolavoro, resta il fatto che l’ho trovato migliore di tante altre opere che sono state già pubblicate (basta che leggiate le stroncature di qualche post precedente).
Innanzitutto il layout: finalmente un’impaginazione leggibile, quasi come una pagina già stampata.
La grammatica: errori d’ortografia del tutto assenti, sintassi corretta, che cosa vuoi di più?
Stile: coerente con il personaggio principale e con la narrazione, lettura veloce e con spunti di contenuto umorismo, esposizione a posto (in tutto il testo avrò appuntato al massimo una quindicina di frasi suscettibili di miglioramento). Tensione narrativa quanto basta.
Tematiche: sufficientemente profonde ed attuali, tali anche da rientrare tra quelle che interessano la casa editrice per cui leggo.
Personaggi: ben caratterizzati.
Soggetto: buono anche se non originalissimo (capirete che non posso raccontarvelo).
Trama: plausibile e interessante. Anche se ben presto mi sono immaginato come sarebbe andato a finire, ma si legge lo stesso per vedere se ci hai indovinato.
Queste stesse conclusioni le ho comunicate all’editore e ho lasciato a lui, dopo che l’avrà letto egli stesso, l’incombenza di decidere se pubblicarlo o meno, incombenza che in questi tempi di crisi è tutt’altro che di facile risoluzione. Dal promuovere un testo al vederlo stampato la strada non è affatto breve come si potrebbe credere: tante decisioni da prendere, scelte da valutare, discriminazioni da effettuare, potenziale da investire.
Ma chissà, forse in un qualche futuro potrà anche capitare che magari su questo blog io recensisca proprio il libro che ho appena promosso, e nella remota ma sempre possibile eventualità che questo incontri il successo potrò gratificarmi dell’intima soddisfazione personale di ricordare a me stesso: questo l’hai scoperto tu!
Il Valutatore

mercoledì 21 agosto 2013

Una ragione per morire

Ho scoperto Lee Child nel 2004, comperando una copia di Zona pericolosa nel negozietto di libri usati che di solito frequento alla ricerca di novità potenzialmente interessanti. Be’, in quell’occasione il mio sesto senso librario ha funzionato alla perfezione e sono stato fortunato due volte: la prima per aver scoperto quest’autore, la seconda per essermi imbattuto tanto bene nella primissima avventura di Jack Reacher, pubblicata nel ’97 negli Usa e nel 2000 in Italia.
Da allora, dopo aver ricercato e trovato e gustato tutti i romanzi di Child che sono stati editi in italiano, ho promosso questo autore tra quelli che vanno acquistati appena escono senza aspettare di trovarlo di seconda mano, anzi, con l’ansia e l’impazienza dell’attesa di ogni nuova uscita.
Va be’, farà qualcuno storcendo il naso, ma in fondo sono solo romanzetti d’azione…

È vero… non dico di no, ma accidentaccio, come sono scritti!


Prendi Una ragione per morire, per esempio, che è l’ultima avventura di Reacher e se non sbaglio la decima o l’undicesima di quelle pubblicate in Italia: inizi a leggere… e non riesci più a staccarti dal libro fino a che non hai visto la parola fine. Non ci dormi, non mangi, se puoi non vai nemmeno a lavorare e rimandi gli appuntamenti pur di giungere al più presto alla risoluzione della vicenda.
Sarà anche un romanzetto d’azione e pure con una trama già vista, ma magari fossero scritti così i libri cosiddetti “seri”!
La prosa di Child, inglese trasferitosi negli Stati Uniti, è sempre molto semplice, ma lui sa inserire alla perfezione quegli elementi che creano curiosità e incrementano la tensione narrativa fino ad incatenarti letteralmente al libro che stai leggendo. Una particolare caratteristica che lo contraddistingue è che, nonostante il protagonista dei suoi libri sia sempre lo stesso, alcuni dei romanzi sono scritti in terza persona, con Child come narratore esterno onnisciente, ed altri in prima persona, con Reacher stesso che assume la parte di narratore interno alla storia. E il bello è che funzionano entrambe le versioni.
È ovvio che in una serie di più di dieci avventure compaiano delle debàcle, e che oltre a romanzi ottimi come  Colpo secco, Il nemico, A prova di killer, La vittima designata e Niente da perdere ci siano opere decisamente meno buone come  I dodici segni e L’ora decisiva, ma quando poi l’autore si risolleva con l’ultimo pubblicato allora riesci anche a perdonargli quelle cadute di stile. Jack Reacher è stato poi consacrato a personaggio famoso in tutto il mondo con il film che è stato tratto da quel La prova decisiva che come romanzo è una delle performances migliori di Child. Il film, per quelli che conoscono già il personaggio di Reacher, è solo leggermente appannato dall’autoscelta di Tom Cruise come improbabile protagonista perché, purtroppo per lui, nella realtà l’attore non ha proprio nulla del fisico di Jack Reacher.
Lee Child è riuscito a qualificare il suo protagonista infondendogli un numero impressionante di aspetti caratteriali che risultano ben accetti al lettore: Reacher è alto e grosso ma non bello,  potente ma non invulnerabile, cinico ma equo, esperto in qualsiasi tipo di combattimento, sprezzante delle imposizioni della società moderna, coerente e lineare, vagabondo senza fissa dimora per consapevole scelta, con un profondo senso della giustizia, un sano interesse per le belle donne, un passato affascinante di ufficiale della polizia militare, un prepotente istinto cavalleresco, libero da qualsiasi vincolo, durissimo ma anche capace di teneri sentimenti, un cavaliere solitario sempre pronto ad aiutare i deboli e combattere le prepotenze.
Sembra che, a parte l’inclinazione per le belle donne che non frequenta molto spesso, io abbia dipinto il ritratto di Tex Willer. E come Tex, Reacher piace perché va per la sua strada, non vuole rotture di scatole, si fa giustizia da solo, se c’è da ammazzare ammazza senza stare a pensarci troppo, ma ovviamente solo i “cattivi” che se lo meritano, e non si fa impastoiare da impedimenti burocratici. Entrambi piacciono perché rappresentano, in un’identificazione spontanea, colui che tutti vorremmo poter essere.
Il Lettore

lunedì 19 agosto 2013

Il tuttomio

Avevate indovinato lo Squizzalibro di ieri? E sì che era facile, avevo anche dato troppi indizi, ma ufficialmente non mi è pervenuta nessuna risposta esatta. Pazienza, forse sarà il caso che i prossimi Squizzalibri non li faccia più difficili di così…
Ma cominciamo: parlar male di un autore che per altri versi invece si ammira appare sempre come una stonatura. Allora facciamo così, lungi da me il denigrare Andrea Camilleri, mi limiterò a parlare male solo del libro.



Il tuttomio può essere benissimo considerato come un esperimento venuto male, un tentativo di racconto che non lascia nulla, una prova di quelle che Elvira Sellerio avrebbe bocciato senza stare a pensarci su troppo. Non solo, penso che la signora Elvira avrebbe di certo bocciato anche quella copertina ributtante (come opera grafica, non certo la ragazza in primo piano…), del tutto aliena dai più basilari concetti di composizione fotografica e di finezza.
Nonostante in passato siano usciti libri più che meritori, come La mossa del cavallo che secondo me è una delle migliori opere dello scrittore, quando Camilleri pubblica fuori da Sellerio sembra che riesca a mostrare tutto il peggio di sé. Ma forse una diversa interpretazione è quella che agli altri editori concede le briciole andate a male della sua produzione, gli scarti, i rimasugli di fine giornata, gli avanzi inutili, riservando all’editore siciliano i prodotti più buoni della sua mente ben temperata.
Resta il fatto che il libro è brutto come pochi, sia come stile che come i contenuti sono stati esposti. Corto (ma questo alla fine può essere un vantaggio), poco credibile, un romanzetto pseudoerotico sciapitino forse pubblicato da Mondadori sulla scia commerciale delle 50 sfumature,  scritto con ritmo veloce ma buttato giù di corsa, con elementi non del tutto originali e forzatamente adattati ad una vicenda che vorrebbe essere morbosa ma ci riesce poco.
Fatto sta che, come già dicevo riguardo agli ultimi di Montalbano, l’insistere in pubblicazioni meno che decenti provoca nei lettori delle delusioni difficilmente sanabili che a loro volta contribuiscono purtroppo al calo della stima che si prova per lo scrittore isolano.
Era già stato fatto in passato con Dentro il labirinto, sorta di biografia di un personaggio ambiguo come Edoardo Persico, libro talmente poco interessante da sfociare nel noioso, che suscita più interrogativi di quanti ne risolve, ma della risoluzione dei quali in definitiva si può fare benissimo a meno.


Molti si domandano se questi libri così lontani dall’alto livello con cui Camilleri si è fatto conoscere li avrà scritti davvero lui. E se davvero fossero suoi, che sappiamo capace di scrivere così bene, come è possibile che sia riuscito a scriverli così male? E soprattutto, come ha potuto poi licenziarli per la stampa? Solo per soldi?
La domanda in fondo è pura retorica: li avesse scritti lui o uno scarso ghostwriter poco importa, la cosa importante è rendersi conto che alcune case editrici, pur di fare cassetta, riescono a pubblicizzare delle opere infime, non ottenendo altro che discredito da parte di un pubblico di lettori un minimo raziocinante.
Il Lettore

domenica 18 agosto 2013

Lo Squizzalibro

Vediamo se qualcuno riuscirà ad indovinare il libro oggetto del post di domani da questi pochi indizi:
1 – Ne parlerò male.
2 – L’autore è italiano.
3 – E’ un giallo… no, un romanzetto erotico… no, un trattatello sulla pazzia… no, un saggiucolo sulle problematiche di coppia… neanche; boh, non si capisce bene cosa sia.
4 – Tra i protagonisti ci sono una spiaggia, una soffitta e una bambola.
5 – L’Editore è più interessato al guadagno che a far uscire libri decenti, e lo ha dimostrato parecchie volte in questi ultimi anni.


Di sicuro vi ho dato troppi indizi e così è fin troppo facile, ma per questo primo Squizzalibro mi va di essere buono. Vi avverto che i prossimi saranno più difficili.
Il premio in palio per tutti quelli che indovineranno è l’incommensurabile soddisfazione di averci azzeccato. Sotto con i tentativi!

Il Lettore

venerdì 16 agosto 2013

Morte in libreria

Da buon bibliofilo ogni tanto mi piace leggere qualche libro che in una sorta di metalinguaggio parla di libri stessi o è ambientato in una qualche biblioteca o libreria. L’ultimo in ordine di tempo è stato questo giallettino di Carolyn G. Hart che ho finito stamattina e che non mi sento proprio di consigliarvi.


Non me la sento perché anche se si lascia leggere non ti dà nessuna soddisfazione e i motivi sono diversi:
1 - E’ tradotto male, con uno stile arcaico e affettato (anche se è possibile che sia colpa dell’autrice, vedi punto 2).
2 – E’ scritto con uno stile (vedi punto 1) da wasp anni ’60 che ora fa solo sorridere, e sì che negli USA il libro è uscito nel 1987.
3 – E’ editato male: in qualche frase manca perfino il verbo (e questa poca cura non ce la saremmo aspettati da Sellerio).
4 – Ci sono troppi personaggi e non sono caratterizzati abbastanza, e quindi ti fanno perdere il filo.
5 – Ci sono troppi cadaveri e troppe situazioni ingarbugliate.
6 – La risoluzione arriva sotto forma di illuminazione nelle menti dei protagonisti senza che al lettore siano state fornite le motivazioni per poterci arrivare da solo.
7 – I poliziotti fanno la parte dei deficienti senza meritarselo.
8 – Il rapporto uomo-donna tra i due protagonisti è del tutto anacronistico.
9 – Sono citati decine e decine di riferimenti a libri ed autori di gialli più o meno noti, e dal momento che per forza di cose una buona parte di questi è del tutto sconosciuta al lettore medio, quest’ultimo non ne può gustare il parallelo con le situazioni del romanzo.
Pace, speriamo che il prossimo libro sui libri sia migliore.  Per restare nei filoni cosiddetti leggeri, i temi dei libri ambientati in locali deputati ai libri si dipanano quasi sempre intorno ad amori nati tra le scaffalature od omicidi perpetrati in mezzo ai volumi. Senza andare a scomodare Umberto Eco o Carlos Ruiz Zafòn, vi fornisco un piccolo poutpourrì di testi del genere, tanto per citare solo quelli che nel titolo mostrano un qualche riferimento ai libri:
La libreria – Penelope Fitzgerald
La libreria del buon romanzo  – Laurence Cossé
La libreria dei nuovi inizi – Anjali Banerjee
La libreria degli amori inattesi – Lucy Dillon
La libreria dell’armadillo – Alberto Schiovene
La libreria stregata – Christopher Morley
Libreria Bella Estate – Sergio Califano
Il segreto della libreria sempre aperta – Robin Sloan
Assassinio in libreria – Lello Gurrado
Il libraio di Selinunte – Roberto Vecchioni
Il libraio di Kabul – Seierstad Asne
Il libraio di Parigi – Mark Pryor
La bambina che salvava i libri – Marcus Zusak
Il segreto del libro proibito – Karen Marie Moning
L’ultimo libro – Zoran Zivcocic
I libri di Luca – Mikkel Birkegaard
Il libro delle anime - Glenn Cooper
La biblioteca dei libri proibiti – John Harding
La biblioteca dell’anatomista – Jorgen Brekke
La biblioteca dei segreti – Rachel Hore
La biblioteca degli incubi – D.J. Mac Hale
La biblioteca dei mille libri – Irfan Master
La biblioteca perduta dell’alchimista – Marcello Simoni
La biblioteca dei morti – Glenn Cooper
La biblioteca del Capitano Nemo – Per Olov Enquist
La verità sul mistero della biblioteca millenaria di Ruta di Camogli – Guido Rovetta
I custodi della biblioteca – Glenn Cooper 
Sei Biblioteche - Zoran Zivcocic
Omicidio in biblioteca – Felicia Carparelli
Uno sparo in biblioteca – Anthony Berkeley
Il bibliotecario di New York – Nathan Larson
Il bibliotecario di Leibniz – Sergio Givone
Tra questi, non tutti sono libri di intrattenimento, ma vi si possono trovare anche romanzi “seri” come quelli di Enquist, Zusak o altri. Buone letture!
Il Lettore

mercoledì 14 agosto 2013

Breve storia della vita privata

Leggendo i libri di Bill Bryson non puoi fare a meno di domandarti come l’autore abbia trovato il tempo necessario a documentarsi in modo da fornire la stupefacente quantità di notizie di cui è farcito ogni volume.
Già ero rimasto impressionato leggendo la sua Breve storia di (quasi) tutto, in cui ripercorre una bazzecola come quindici miliardi di anni di vita del mondo fornendoci nozioni di fisica, chimica e biologia del nostro universo, con particolare riguardo alla Terra e agli ultimi 4.500.000.000 anni, ma dopo aver terminato la Breve storia della vita privata sono rimasto addirittura annichilito di fronte all’immane quantità di informazioni che Bryson è riuscito a trarre analizzando i particolari di quel limitato microcosmo che è una qualsiasi abitazione inglese.



Lo sapevate per esempio che per poter iniziare a costruire il secondo piano di un’abitazione si è resa prima necessaria l’invenzione del caminetto? O che la pratica della ginecologia poté prendere piede grazie a un medico pazzo furioso che si divertiva ad asportare clitoridi per guarire le pazienti dall’insonnia? Che il leggendario aspetto “naturale” dei boschi inglesi è del tutto artificiale? O che la Statua della Libertà è solo un guscio vuoto di rame spesso appena due millimetri retto da un’incastellatura in ferro progettata dallo stesso ingegner Eiffel, quello della Torre?

Nei libri di Bryson potete trovare queste e altre migliaia di notizie dapprima ignorate, fatto che contribuisce notevolmente ad un allarmante calo della propria autostima. Questa Breve storia è densa di una tale messe di informazioni che alle volte suscita più curiosità di quante ne appaga: diverse volte, nel corso della lettura, mi è presa la frenesia di mettere mano a Google per cercare approfondimenti su qualche tema.  
William "Bill" McGuire Bryson è un giornalista statunitense rifugiatosi a vivere in Inghilterra e diventato famoso soprattutto per i suoi libri di viaggio, a metà tra diari e documentari, nei quali analizza città, abitanti, paesi e isole che ha visitato nel corso delle sue peregrinazioni. Forse si è trasferito dall’altra parte dell’oceano a causa del suo sense of humour, molto simile a quello tradizionale inglese e del quale è pregno ogni suo scritto. Lo contraddistingue uno stile  semplice e colloquiale, una grande autoironia e la pressoché infinita serie di aneddoti di cui riesce a farcire i propri libri. Leggerlo, dopo essersi armati della pazienza necessaria a causa della mole dei volumi,  è divertente e utile per arricchire le proprie conoscenze personali anche se, e gli si può perdonare solo in parte, quelli che possono essere considerati dei saggi divulgativi sulle più varie scienze non sono proprio del tutto esaustivi, come si può arguire leggendo le pagine sulla scoperta del telefono nelle quali Bryson nomina tutte le persone che hanno in qualche modo partecipato all’invenzione: Graham Bell, Philipp Reis, Thomas Watson, Henry Dreyfuss e William Blauvelt, ad eccezione di quella forse più importante, Antonio Meucci.
Il suo libro più famoso rimane comunque Una passeggiata nei boschi, che con questo delizioso titolo - lievemente understatement - è il diario del suo tentativo di percorrere a piedi l’Appalachian Trail, cioè quello che può essere considerato il sentiero attrezzato più lungo del mondo, con i suoi 3.500 chilometri che si dipanano lungo la catena dei Monti Appalachi dalla Georgia al Maine attraverso 14 stati americani. In questo diario Bryson riesce ad inserire, tra un passo e l’altro, numerosissime nozioni di geografia, biologia, zoologia, geologia, climatologia, ecologia, archeologia e politica nonché praticamente tutta la storia degli Stati Uniti.


Nel caso voleste leggerlo non posso anticiparvi se l’autore sia riuscito o meno a condurre a termine questa gitarella fuori porta di circa sei mesi (a 20 km al giorno, tutti i giorni, a piedi! Per curiosità, il record di percorrenza lo detiene una gentile signora di nome Jennifer Pharr Davis ed è di circa 46 giorni e qualche ora, ad una media di 75 km al giorno!), ma quello che posso dirvi è che la prima parte del libro, quella in cui è riportato l’approccio al trekking da parte di due uomini di città del tutto fuori allenamento e del tutto imbranati, è tra  i contenuti più esilaranti che io abbia mai letto in un libro.
Notizie recenti riportano che Robert Redford ha intenzione di girare un film basato su questo libro di Bryson interpretandone il protagonista affiancato da Nick Nolte, e se porterà a termine il progetto varrà sicuramente la pena andarlo a vedere.
Il Lettore

lunedì 12 agosto 2013

Il suggeritore

Ho lasciato questo libro sul comodino per un anno e mezzo prima di leggerlo, anzi, per la verità lo avevo subito iniziato appena preso, ma dal momento che le prime pagine non mi avevano entusiasmato mi ero riproposto di terminarlo più in là. E sì che i presupposti per una buona lettura c’erano tutti: le voci che parlavano di un romanzo stupendo, le consacrazioni dell’autore a poter essere considerato il Jeffrey Deaver italiano, la rapidissima scalata ai vertici delle classifiche di vendita, il fatto da non sottovalutare che alla mia compagna di vita e di letture non era dispiaciuto (anche se non è che ne fosse rimasta proprio entusiasta).

Ma quando il mio sesto senso librario si fa sentire, in genere devo dargli retta.


Be’, per farla breve alla fine l’ho letto, e l’aspetto più rimarchevole di questo fatto è che ora ne sto ricavando un post. Per il resto, una vera delusione.
Avevano pubblicizzato Il suggeritore come un ottimo thriller ad alta tensione, con trovate geniali e colpi di scena sorprendenti, da leggere tutto d’un fiato, e questo ti fa solo capire come qualsiasi notizia tu attinga dalla televisione è un’emerita baggianata
Il romanzo si lascia anche leggere, storcendo il naso parecchie volte, ma al termine ti chiedi come mai non hai deciso di sprecare il tempo in qualche altro modo, che so, una passeggiata, per esempio. La trama è ai limiti dell’assurdo, veramente farraginosa e campata per aria, costruita a tavolino in modo tale da creare nel lettore un continuo succedersi di sensazioni forti, sull’onda dei romanzi di Harris, Leane, Coben, Klavan, Wessel, Heffernan e molti altri, in pratica una scopiazzatura degli stili di molti, ma il problema è che queste sensazioni sono suscitate da invenzioni irragionevoli e colpi di scena al limite dell’assurdo di quelli che anche il lettore meno smaliziato se ne esce con un ma dai, ma non sta né in cielo né in terra!
I personaggi sono spinti da motivazioni francamente poco credibili e i loro comportamenti sfociano in azioni paradossali che per essere dei professionisti li fanno sembrare invece dei veri deficienti, e la risoluzione finale, che a detta di molte di quelle voci osannanti avrebbe fatto realmente rabbrividire, in realtà lascia il tempo che trova, se non un senso di liberazione per averlo finalmente terminato e poter passare a qualcosa di più sostanzioso. E credibile, soprattutto.
L’aspetto criminologico sarà trattato anche in modo passabile, e ci mancherebbe altro, visto che Donato Carrisi è anche un criminologo, ma nel complesso non posso fare altro che relegare il libro tra i thriller di terza categoria ed archiviarlo lassù, sullo scaffale più alto della mia libreria, quello che per raggiungerlo c’è bisogno della scala.
Perlomeno ho liberato un posto sul comodino.
Il Lettore

venerdì 9 agosto 2013

A sud del confine, ad ovest del sole

Quando stai parlando a tu per tu con una persona famosa in tutto il mondo, di quelle dotate di un considerevole spessore, e scopri che condivide con te il piacere di leggere autori che ammiri, non puoi fare a meno di sentirti tutto orgoglioso. La persona in oggetto è Lorenzo Mattotti, artista e fumettista di fama internazionale, il luogo la Biblioteca delle Nuvole di Perugia e l’autore il giapponese Haruki Murakami, di cui si ventila sia uno dei candidati ad un prossimo Nobel per la Letteratura.


Nel corso di quella chiacchierata Mattotti sosteneva di essere affascinato dalla prosa del giapponese, e di avere in comune con lui il desiderio di sconfinamenti artistici nella dimensione onirica e alle volte soprannaturale. Diceva anche che Murakami è uno di quegli autori che fanno riflettere come pochi altri. La dimensione onirica e soprannaturale io non la amo molto, tanto è vero che tra tutti i libri di Murakami preferisco i più concreti, ma sono d’accordo sulla capacità del giapponese di fornirti continui spunti di riflessione.
A sud del confine, ad ovest del sole di splendido non ha solo il titolo. L’aspetto che più mi ha colpito del libro è la finezza della prosa, che immagino peraltro, non conoscendo il giapponese, sia stata tradotta in maniera superlativa. La scrittura di Murakami è di una semplicità tale da rasentare la perfezione: la lettura è sempre fluida e scorrevole e  di una precisione incredibile nel mostrarti situazioni e stati d’animo, trasformando l’opera in una di quelle che ti restano dentro a lungo. E c’è da considerare anche che questo romanzo è uno dei primi che ha scritto.
Ho cominciato a leggere Murakami con L’arte di correre e l’ho apprezzato da subito: questo libro non è un romanzo e per questo molti sono arrivati a giudicarlo scadente, ma io l’ho trovato oltremodo interessante perché in esso Murakami sviscera un’analisi spietata delle motivazioni che lo spingono sia a scrivere romanzi che a correre maratone sfiancanti, e per ognuna delle due tematiche spiega le tecniche e i trucchi che utilizza per arrivare fino in fondo.
Ho continuato con Norwegian wood, quindi con Kafka sulla spiaggia e Nel segno della pecora, per poi passare a 1Q84 e ai volumi di racconti nei quali sono concentrati la bizzarria e il mistero di cui Murakami ama circondare le sue vicende, e che per l’accentuata dimensione onirica sono quelli che mi hanno soddisfatto di meno. Io amo stare sul reale. Ma in ognuna delle opere Murakami trasfonde sia l’anima del Giappone moderno con tutte le sue contraddizioni sia i problemi adolescenziali dei giovani nipponici, permeando l’insieme dell’eleganza riposta in una prosa squisita e descrivendo con arte quasi calligrafica particolari e sentimenti.
Il Lettore 

mercoledì 7 agosto 2013

I "curricula" degli aspiranti scrittori

Qualche volta mi fanno morire. Dal ridere, o dallo stupore. Quando arrivano testi inediti in redazione molto spesso sono seguiti da lettere di accompagnamento, curricula, biografie, sinossi delle opere, liste di titoli già pubblicati, elenchi di incarichi ricoperti, preghiere perché i testi siano letti alla svelta, suppliche per la pubblicazione o minacce di ritorsioni qualora quegli scritti non venissero accettati. Al contrario qualcuno è molto stringato, niente lettere a lato, solo: “Vi mando il mio romanzo dal titolo “Il gatto uscito dalla stufa”. Dategli un’occhiata”. Senza nemmeno firmarsi. Da un estremo all’altro.


Ma quando sono presenti, in alcuni di quegli allegati si scoprono delle perle che sapendole interpretare lasciano sospettare il valore dell’opera che dovrà essere valutata ancora prima di leggerla.
Uno che ti informa che delle sue precedenti pubblicazioni ha già venduto sessanta o settantamila copie e tu non l’hai mai sentito nominare, quando ora come ora per arrivare in testa alle classifiche dei bestseller in Italia basta che te ne comprino anche meno di 4 o 5 mila, ti fa sospettare, a meno che non le abbia piazzate porta a porta, che le stia sparando un po’ grosse. Figuriamoci quindi le fregnacce che ha messo nel libro che sta cercando di promuovere.
Quelli che ti enumerano 26 premi conquistati in concorsi letterari, 42 titoli accademici e 95 incarichi ricoperti presso le più prestigiose università europee, su un lettore ingenuo potrebbero anche fare colpo, ma basta che il lettore ingenuo si accorga già nella sinossi del numero abnorme di virgole messe tra soggetto e predicato, per operare un radicale  rovesciamento del concetto.
Sono un po’ come quegli aspiranti scrittori che ci tengono a qualificarsi come professori, avvocati, ingegneri, dirigenti, plurilaureati, perfino giornalisti, e poi ti scrivono: “Le invio questo romanzo che o scritto…” con la voce del verbo avere senz’acca. Non ci credete? Ho le prove, ce le ho tutte memorizzate. Un refuso! Dirà qualcuno. Una distrazione! La tastiera del pc che funziona male! Va bene, ammettiamo pure che sia un refuso, ma anche fosse, la presenza di quel refuso significa che non rileggi nemmeno quello che scrivi, nemmeno quando stai tentando di convincere un editore a pubblicarti! Figurarsi il testo dell’opera.
Quelli che descrivono da soli la propria opera come dinamica, corale, ritmica, sorprendente, accattivante, fluida, divertente, eccentrica, pienamente leggibile, intrisa di delicatissime aure magiche, impareggiabile, potente, appassionante, da leggere tutta d’un fiato, profonda, pregna di sentimento, poetica, densa di significato e altre amenità, puoi stare sicuro che ti stai apprestando a valutare un mattone di quelli che I Miserabili al confronto è una storiellina che va giù come l’acqua.
Quei poeti (ha ha ha… ehm, scusate…) che spediscono una, due, tre raccolte di poesie, anche quattro o cinque, ma anche sei, a te casa editrice che non hai mai pubblicato un libro di poesie in tutta la tua storia… che dire? Proprio nulla.
Ma ci sono anche quelli nati nel ‘93 (‘92, ‘94, ’96…) che ti informano che “quando erano piccoli” amavano tanto leggere e inventare storie ed è sembrato loro doveroso arrivati a questo punto della loro esistenza, una volta cresciuti (!), di mettersi a scriverne loro stessi. Ma perché? Continua a leggere, no! Tanto più che in genere gli appartenenti a questa categoria usano affibbiare quasi sempre ai loro personaggi tutti nomi americaneggianti (Jake, Kevin, Sammy…) per storie ambientate a Torpignattara. Mah!
E quelli che tentano di convincerti che i personaggi del loro romanzo sono originali, imprevedibili, solari, erompenti dalla pagina, coerenti, a tutto tondo, strazianti, drammatici, compresi nel loro ruolo, esilaranti, macerati dalle contraddizioni, tragici, specchiati o shakespeariani, ti fanno presagire che leggerai di personaggi più piatti delle figure in un mondo bidimensionale.
Quelli che nella sinossi non si sognano nemmeno di raccontarti la trama del romanzo così com’è, ma con essa cercano solamente di convincerti che la vicenda è molto intrigante, ecco, questi andrebbero fucilati proprio, usando penne al posto dei proiettili.
Ma c’è anche chi spedisce solo una sinossi di tre righe, ovviamente descrivente una trama che più banale e scontata non si può, senza allegare nemmeno un capitolo dell’opera, sicuri che ti basterà scorrere quella sinossi per rimanerne totalmente affascinato e li pregherai subito di fornirti il testo completo per stamparlo immantinente senza leggerne neanche una pagina.
E anche quelli che invece elaborano una sinossi di 6 pagine di 900 caratteri l’una sviscerando anche i più reconditi pensieri della tartarughina del coprotagonista e ti portano a chiederti, qualora tu sia riuscito a resistere al sonno oltre la decima riga, di quali abomini abbiano farcito il romanzo stesso.
Alla fine penso di preferire quelli che nelle loro presentazioni sono troppo stringati, ma per lo meno si firmassero…        

Il Valutatore & lo Scrittore

lunedì 5 agosto 2013

La condanna del sangue - La primavera del Commissario Ricciardi

Ciò che emerge dai romanzi di Maurizio de Giovanni è un’umanità variegata che si palesa attraverso una miriade di aspetti tra i quali spiccano una malinconia di fondo e un’ineluttabilità del dramma del vivere quotidiano che rendono il tono di ogni avventura del Commissario Luigi Alfredo Ricciardi denso di tristezza. A mio parere De Giovanni è al momento uno dei migliori autori italiani in circolazione.


L’ambientazione della trama di La condanna del sangue – La primavera del Commissario Ricciardi, nella Napoli del ventennio fascista, satura di povertà, odori forti, differenze sociali, delitti e prevaricazioni politiche, non aiuta a risollevare il lettore dal senso di disperazione attraverso il quale De Giovanni lo conduce per mano, anzi, gli permette di mettere la propria nella mano del Ricciardi e da lui stesso farsi condurre in silenzio tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli o tra le ville in costruzione del Vomero, condannati entrambi dalla maledizione del Fatto (cioè della peculiarità di poter vedere i morti di morte violenta cristallizzati nell’attimo immediatamente antecedente al trapasso) che incombe sul Commissario.
E il lettore si lascia condurre, ammaliato da una prosa limpida e scorrevole che dipana ogni vicenda fino alla sua conclusione alternando elementi investigativi a faccende personali che mettono in luce tutte le sfaccettature del caleidoscopio di sentimenti di cui sono permeate le miserie umane, in una ridda di sentimenti sia nobili sia meschini, con l’ombra sempre costante della morte che incombe sui personaggi. Ricciardi, Maione, Bambinella, Enrica, Modo, e perfino le spalle come Lucia, Camarda e Cesarano, Ponte e il Questore Garzo sono caratterizzati in modo mirabile soprattutto attraverso i loro comportamenti, entrano da subito nella consapevolezza del lettore e la loro vita quotidiana si fonde insieme a gioie e tragedie con l’intreccio poliziesco sul quale il romanzo è imperniato. Un romanzo più che un giallo, nel quale la ricerca del colpevole passa in secondo piano nelle aspettative del lettore che resta appagato dalla lettura stessa.
È il terzo lavoro che leggo delle vicende di Ricciardi, e come i due precedenti mi ha lasciato pienamente soddisfatto, sia pure con quel lieve senso di tristezza per lo più innescato dalla figura del Commissario, e con la curiosità – positiva – di poter venire a conoscenza nelle prossime puntate dell’evoluzione delle sue vicende personali, che l’autore lascia intenzionalmente in sospeso. Le trame di De Giovanni sono più che passabili, ma quello che affascina di più il lettore sono stile, ambientazione e personaggi.
Mentre questa recensione attendeva di venire pubblicata ho trovato il tempo di leggere anche il successivo Per mano mia. Il Natale del Commissario Ricciardi.


Bene, una conferma. Un libro saturo di sostanza, in cui il Fatto viene messo un po’ più in secondo piano rispetto ai primi volumi, e nel quale prende ancora più corpo la figura del Brigadiere Maione, uno dei migliori coprotagonisti che mi è mai capitato di incontrare.
Il Lettore