È l’ultimo giorno dell’anno,
e sarò veramente contento domani di mettere un cinque al posto del quattro: checché
ne dicano Renzi e Facebook, con tutti i loro tentativi di farci credere che
abbiamo passato mesi meravigliosi, questo è stato veramente un anno di merda. Auguri
per il prossimo. Ma veniamo a noi.
Com’era che si intitolava
quel film con… quell’attore… sì, quello australiano… no, neozelandese… che
piace alle donne… che è stato nominato miglior attore per aver sostenuto il
ruolo del genio schizofrenico… ah, sì, Russell
Crowe, e il film era Un’ottima
annata, diretto da quell’altro genio di Ridley Scott.
Ecco, si sarebbe potuto
dire che il film di Scott avrebbe potuto essere stato tratto da questo libro di
Noah Gordon (e non da quello di Peter Mayle come è in realtà), con
qualche libertà d’artista, se non fosse che il film è uscito nelle sale nel
2006 e il libro è stato pubblicato nel 2007. Ma più o meno il succo (tanto per
restare in tema) è quello.
Di Noah Gordon avevo già letto, diversi anni fa, Medicus, Lo
Sciamano e Il medico di Saragozza,
in pratica tutti i libri con i quali è diventato famoso, e li avevo trovati
molto piacevoli. Sono tutti romanzi in cui la tematica principale è la medicina: sono storie di uomini in
diverse epoche e diverse ambientazioni che in una forma o nell’altra hanno
dedicato la propria vita a curare il prossimo.
Anche questo Il signore delle vigne è la storia di
un uomo con una passione, che in questo caso non è la medicina ma l’uva. Siamo nella Spagna della seconda
metà del diciannovesimo secolo, una nazione dilaniata da guerre civili e lotte
per il potere, e Josep Alvarez è un
povero contadino che suo malgrado si trova invischiato in pericolose tresche
politiche che lo costringono a scappare per qualche anno in Francia, dove
impara a raffinare l’arte della coltivazione delle vigne. Una volta tornato nel
paese natìo, Josep transita per diverse peripezie fino a coronare il suo sogno di
riuscire ad ottenere del buon vino
dai rachitici vitigni del suo arido pezzetto di terra.
Un buon romanzo, forse con situazioni più o meno già viste o lette da
qualche altra parte e senza nulla di particolarmente eclatante, che si legge
comunque molto bene per merito di uno stile votato all’essenziale e una
profonda conoscenza della contestualizzazione. Il modo di vivere, i costumi e
le usanze della Catalogna del 1870 sono perfettamente credibili e le
ambientazioni rigorose, così come del resto il quadro storico e sociale
dell’epoca. L’altra sera l’ho letto per tre ore sotto il piumone senza che
fossi stroncato dal sonno, e questo è un chiaro indice di un testo che vale.
Ma l’essenzialità della
scrittura ha portato anche un leggero
difetto, più una sensazione che altro: ho notato cioè una sottile
freddezza, un accenno di estraniazione dello scrittore dalla pagina, un frenare
passioni e coinvolgimento in favore di una narrazione distaccata e del tutto
mirata alla storia. In pratica una scrittura da professionista puro, i
sentimenti del quale sono attentamente nascosti e mai rivelati. Considerando
che il romanzo è stato scritto alla ragguardevole età di ottant’anni, direi che
l’autore ha avuto un considerevole lasso di tempo per fare esperienza.
Se lo vogliamo chiamare
difetto…
Il Lettore