venerdì 26 giugno 2015

Considerazioni moderatamente deprimenti

Non avrei mai pensato che proprio in occasione del secondo compleanno di questo blog avrei dovuto imporre un rallentamento nel ritmo di pubblicazione delle recensioni (evvai! Era ora…), ma erano anni che non mi capitava un periodo così denso di impegni da non riuscire a leggere nemmeno una riga: sono oberato al punto da non poter dedicare al mio passatempo preferito nemmeno cinque minuti al giorno.
(Leggi al bagno, coglione…) Ci sarebbe rimasto il bagno… lì devi passarci per forza, ma quello è riservato da sempre alla Settimana Enigmistica.




Lo so che non ve ne frega niente (bravo!) e che ognuno ha i propri cazzi da gestire eccetera eccetera, ma giusto per darvi un assaggio di queste giornate, dalle sei di mattina fino al momento in cui crollo:
Attività giornaliere primarie:
-         Fare da tassista al figlio appiedato.
-         Fare da chef privato alla moglie golosa.
-         Riservare un tempo variabile dalle 4 alle 8 ore all’editing (da incubo) di un catalogo monumentale (e speriamo che non facciano troppe storie quando chiederò loro il conquibus).
-         Tenere una parte della mente concentrata su un romanzo in divenire sul quale l’autore mi ha chiesto un aiuto per la sistemazione.
-         Pensare ogni tanto alle cose che mi piacerebbe scrivere (quelle “mie”).
-         Tra una cosa e l’altra controllare il Forum del quale sono uno dei moderatori.
-         Correre a destra e sinistra come una trottola per incontrare clienti del mio lavoro (quello “vero”).
Attività intermittenti:
-         Assistere a conferenze promettenti che invece si rivelano deludenti e tediosissime.
-         Presenziare con sospetto a inaugurazioni solenni con tanto di sindaco e vescovo che invece si rivelano sorprendentemente rapide e piacevoli nonché veri e propri attentati per il fegato.
-         Partecipare (purtroppo) a presentazioni di libri scritti da conoscenti.
-         Sopportare angoscianti sedute dal dentista.
-         Varie ed eventuali (di queste chissà perché ogni giorno ce n’è una).
Capirete quindi che se dopo cena oso solamente sedermi in poltrona, mi addormento dopo cinque secondi, e se per caso una volta a letto prendo un libro, non riesco a leggere nemmeno un paragrafo e crollo con la faccia sulle pagine aperte risvegliandomi del tutto rincoglionito (io pensavo fosse una situazione naturale…).
Ma abbiate pazienza (ecco, quella proprio mi manca…), non appena ci sarà un allentamento della tensione, o perlomeno non appena avrò terminato di editare quel catalogo (speriamo che ti ci voglia ancora qualche mese…), riprenderò a godermi qualche scrittore che merita (lo spero!) e a farvene partecipi. Buona giornata!
Freereader

lunedì 22 giugno 2015

La nascita di Freereader

In realtà, questo post volevo intitolarlo: Non fidatevi di nessuno, non fidatevi della televisione e nemmeno di vostro padre, e men che meno di ciò che leggete sui giornali. Ma, a parte che come titolo sarebbe stato davvero troppo lungo, esso avrebbe fornito fin dall’inizio una specie di morale che invece, come nelle favole, andrebbe rivelata solo alla fine del racconto. E poi così è più intrigante.
Avete presente i più grandi personaggi dei fumetti? Prima o poi, di tutti quanti è uscita un’avventura in cui sono state raccontate le loro origini: Il primo morso di Spiderman; Tex Willer e le tre “p”: pugni, pannolini e pallottole; La culla kryptonitica di Superman; Batman quando era ancora uno sfigato; Diabolik e il biberon assassino e così via, e su questa scia  ho deciso di raccontarvi le vere origini di Freereader e di come è nato questo blog, tanto bene in concomitanza con il suo secondo compleanno.
Mettetevi comodi.




Era una giornata buia e tempestosa… stavo parlando con una mia amica giornalista nella redazione di un quotidiano locale e lei si stava lamentando di non avere il tempo per scrivere le recensioni ad alcuni libri che le erano giunti in omaggio affinché, appunto, fossero commentati sul giornale per un briciolo di pubblicità.
Non ricordo di chi dei due fu l’idea, fatto sta che al termine della conversazione eravamo d’accordo sul fatto che lei mi avrebbe regalato quei libri, e io ne avrei scritti i commenti. La criptica firma “Freereader” mi venne spontanea. Libero lettore: come mi sono sempre sentito.
Il tutto naturalmente a gratis. Ma che vuoi. Va be’, del resto mi diverto, e sarebbe anche una maniera di impinguare la mia biblioteca.
Sì, magari.
I libri che le arrivavano non richiesti in redazione erano tutti capolavori di self publishing, del tipo di quelli che io come Valutatore stavo già bocciando in maniera seriale, ma in questo caso gli autori, non soddisfatti del responso delle case editrici alle quali li avevano dapprima spediti, se li erano pubblicati da soli con ovvi risultati.
Mascherando la delusione lessi una silloge di poesie (puah!), ne scrissi una recensione sincera e solo moderatamente cattiva, pure abbastanza ironica, perfetta (a mio parere) per un quotidiano di provincia bisognoso di risollevare un po’ il tono, e la spedii all'amica giornalista.
Lei mi fece notare che non avevo mica capito.
«Le recensioni devono essere tutte positive!» disse.
«Positive?» chiesi (con solo un pizzico di stupore).
«Positive!»
«Ma queste poesie fanno schifo.»
«Non importa, non possiamo parlarne male.»
«E perché mai?»
«È la linea editoriale del giornale.»
«Quale linea, quella di sparare cazzate?»
«Così vuole il Direttore.»
Non c’era più altro da dire. A malincuore riscrissi il pezzo tentando di osservare quelle insignificanti poesie da una diversa angolazione. E man mano che scrivevo scivolavo in una sottile spirale di nervosismo: Freereader. Libero lettore. Libero lettore un cazzo! Ma tant’è.
Attingendo alla capacità tipica di qualche Gemelli di essere capaci di parlare sia male che bene di qualsiasi cosa, individuando quelli che in un concetto possono essere aspetti negativi ma allo stesso modo essendo perfettamente in grado di ribaltarne del tutto il significato, la nuova recensione venne splendida, di quelle che, se l’avesse fatta propria Fabio Fazio in tivvù, la porcata avrebbe venduto millemila copie.
«Perfetta» disse la mia amica e la pubblicò in un battibaleno. E ci credo, pensai, a rileggere le mie parole l’avrei comprata anch’io, quella collezione di merdine.
La cosa buffa fu che l’autrice delle merd poesie contattò la mia amica manifestando il suo incommensurabile entusiasmo per il modo veramente superbo con cui il recensore aveva saputo cogliere lo spirito che lei aveva voluto infondere nella sua opera. Non ebbi parole. Ci sarebbe mancato anche che avesse preteso di conoscermi di persona.
Credeteci, tutto vero.
L’avventura con il quotidiano terminò alla seconda recensione, fotocopia della prima. Detti forfait di mia spontanea volontà. Non potevo proprio continuare a scrivere mucchi di cazzate per opere che se fossero arrivate in casa editrice non ne avrei proseguito la lettura oltre la seconda pagina. Ero di nuovo disoccupato, metaforicamente parlando, ma l’idea di far sapere al mondo il mio parere, quello reale, sulle cose che leggevo non mi usciva dalla mente.
A questo punto intervenne l’esperto informatico di casa. Mia moglie. Che sia un esperto informatico è pura realtà: gli informatici sono come i fisici, sempre persi in un mondo loro, contatto con la realtà prossimo allo zero, ma ogni tanto sono capaci di tirare fuori idee geniali.
«Potresti mettere su un blog» se ne uscì una sera.
«Un che?» La mia conoscenza dei meandri del web si limitava a permettermi di aprire la posta elettronica.
«Un blog, una specie di diario online
«Un diario? E chi dovrebbe leggerlo?»
«Tutti quelli che sapranno che esiste.»
«E in questo diario che ci dovrei scrivere?»
«Quello che ti pare.»
Quello che ti pare.
Q-u-e-l-l-o-c-h-e-t-i-p-a-r-e.
QUELLO CHE TI PARE!
Furono queste le parole risolutive.
Mi documentai, cercai di tradurre le successive ed enigmatiche spiegazioni della consorte e trovai che, in fondo, non serviva mica chissà quale conoscenza informatica né il tutto risultava così difficile. A parte i problemi continui di connessione. Grazie, Telecom.
E così è partita quest’avventura. Ora che sono leggermente (ma proprio di poco) più scafato mi rendo conto che questo, rispetto ai tanti altri blog letterari che ho visitato in seguito, sempre intervenendo quasi niente nelle discussioni, è un blog grezzo, terra terra, senza orpelli, senza finezze tecniche né ornamenti grafici: il tempo che impiego a compilarlo preferisco passarlo a scrivere, piuttosto che ad abbellirlo. Ma è del tutto sincero.
Ah, già, la morale.
Non vi fidate.
Non fidatevi della televisione, e non fidatevi dei giornali. Se un giornalista percepisce uno stipendio da chicchessia, è ovvio che prima o poi sarà da costui costretto a sparare cazzate. Vi potreste fidare, e moderatamente, solo di chi queste cose le fa per passione, senza avere un qualsiasi secondo fine. In futuro potreste non dovervi fidare nemmeno del sottoscritto: se e quando qualcuno si farà avanti offrendomi una retribuzione per queste recensioni, sarà allora che dovrete cominciare a dubitarne.
Ma non temete, vi avvertirò prima.
Lo Scrittore

venerdì 19 giugno 2015

Il giorno più lungo

Quando ti trovi a passeggiare per la sconfinata distesa di sabbia di quella che fu chiamata Omaha Beach durante la bassa marea, non puoi impedire che i tuoi pensieri scivolino sulla retorica. Non puoi fare a meno di immaginare quale apocalisse debba essere stata quella stessa battigia all’alba del 6 giugno 1944, e puoi provare solo a ipotizzare la quantità di sangue, sofferenza, tragedia, eroismo e disperazione di cui è intrisa quella sabbia sulla quale stai camminando.
E sì che la giornata di agosto è splendida, intorno a te francesi, inglesi e tedeschi stanno facendo il bagno tutti insieme e ti sembra un controsenso, come il fatto che tu ti stringa al corpo la giacca a vento con entrambe le braccia perché è un freddo della madonna e da buon italiano non riesci a capacitarti di come tutta quella gente riesca a stare a mollo seminuda nella Manica senza congelare. Ma questo con il libro di oggi non c’entra nulla, l’ho messo solo per sdrammatizzare.




Quest’anno il 6 giugno è passato in sordina. Del resto era solo il settantunesimo anno dopo lo sbarco in Normandia, e la cifra tonda del decennale è passata via l’anno scorso. Ma come ogni inizio giugno ho ripreso in mano il libro e ne ho sfogliata qualche pagina a caso, a omaggiarne l’autore e i protagonisti reali lontani nel tempo. Del resto, da quante volte l’ho letto, lo conosco quasi a memoria. “Mi creda, Lang, le prime ventiquattr’ore dell’invasione saranno decisive… la sorte della Germania è legata a quelle ore… per gli Alleati, e per la Germania, sarà il giorno più lungo.” Se qualcuno me lo avesse chiesto, gli avrei anche saputo rispondere che questa citazione delle parole del Feldmaresciallo Edwin Rommel dalle quali è tratto il titolo si trova a pagina 6.
Tra tutti i numerosi trattati che sono stati scritti sullo sbarco in Normandia ― solo nella mia libreria ce ne sono quattro, compreso l’esaustivo D-Day di Stephen E. Ambrose – questo di Cornelius Ryan è sicuramente il più piacevole da leggere. La ragione è semplice: senza tralasciare l’inquadramento storico, gli antefatti e le fasi di preparazione a quella battaglia annunciata, viste dalla parte di entrambe le forze in gioco, Ryan racconta la cronistoria degli avvenimenti di tutta la giornata riportando centinaia di testimonianze dirette che conferiscono umanità a tutto il libro, consentendo al lettore di potersi immedesimare nei singoli personaggi. Per raccogliere questi squarci di vita, e di morte, Ryan ci ha messo più di dieci anni, intervistando migliaia di ex-soldati e civili, tanto che il libro è uscito solo nel 1959 e subito ne è stato tratto l’omonimo film del 1962, in uno splendido bianco e nero e con protagonisti una miriade di attori fra i più famosi dell’epoca.
Dico solo questo: chi non ha ancora letto questo libro dovrebbe farlo al più presto.
La nebbia si diradava e l’orizzonte si riempiva di navi, come per magia, navi di ogni tipo e dimensione, che manovravano tranquillamente avanti e indietro, come se fossero lì da ore. Sembravano migliaia. Una ‘armada’ spettrale sorta dal nulla. Il respiro corto, impietrito, Pluskat non credeva ai suoi occhi, più emozionato di quanto fosse mai stato. In quel momento il mondo del buon soldato Pluskat cominciò a crollare. Ricorda che in quei primi momenti capì con certezza che ‘era la fine della Germania’. (…) Block chiese: «Dove si dirigono queste navi?» Col telefono in mano, Pluskat si girò, guardò fuori dal bunker e rispose: «Diritto su di me
Il maggiore Werner Pluskat ebbe la fortuna di salvare la pelle e di poter raccontare in seguito quei momenti direttamente a Ryan. È certo comunque che chiunque sia passato per quella che è stata la più grande operazione militare della storia non può dimenticarsene con facilità. Già oggi, vedere gli ancora evidenti crateri provocati dalle bombe sulla Pointe du Hoc, o le pareti interne dei bunker annerite dai lanciafiamme, o passeggiare tra le sconfinate distese di lapidi bianche del cimitero di guerra di Colleville sur mer procura un’emozione struggente. Non puoi fare a meno di pensare che su ogni metro quadro che calpesti ci ha sofferto e ci è morto qualcuno.
E quando esci con un groppo in gola dal cimitero americano il pensiero ti si proietta nel futuro ― non tanto in là, a soli 29 anni da oggi ―, a quel 6 giugno 2044 quando potrà essere aperta la Scatola del tempo sepolta da Churchill e Eisenhower proprio lì a Colleville, per la curiosità di sapere che cosa avranno lasciato a testimonianza di una delle più grandi tragedie dell’umanità.
Speriamo di arrivarci.
Il Lettore

martedì 16 giugno 2015

Cena sull’erba, con Giorgio

Ha! Ha! Ha!
Scusate, mi viene da ridere. Ha! Ha! Scusate ancora, ma è che sto pensando all’altro giorno quando il direttore editoriale di ali&no editrice, la casa che ha pubblicato questo romanzo, mi ha detto con un ghigno sardonico: “Voglio proprio vedere che straccio di recensione ne tirerà fuori Freereader!”. Ha! Ha! Forse pensava, il tapino, che non avrei avuto il coraggio di recensire in modo sincero e spassionato l’ultima fatica di uno scrittore che conosco di persona. Un amico intimo, oserei dire.
Be’, se davvero ha pensato così, si è sbagliato di grosso.




Perché la missione vera di un recensore che si rispetti è quella di fornire il proprio parere, soggettivo finché si vuole, sull’oggetto in questione, senza lasciarsi influenzare da conoscenze, parentele, interessi o profferte varie di quelle che assomigliano parecchio alla corruzione. Se di un libro non posso scrivere ciò che ne penso in modo sincero, è semplice, non ne parlo affatto. Di conseguenza, nello stilare le righe che seguiranno cercherò di estraniarmi dalle frequentazioni di tutti i giorni e proverò a valutare questo testo come se lo avessi letto per la prima volta, sforzandomi di dimenticare le decine e decine di sedute in cui l’ho ripassato criticamente e tutti i consigli da editor che ho fornito al suo autore mentre lo stava scrivendo. Giovagnoni chi?
Ma partiamo dalla copertina, accattivante, con quei magnifici riflessi che Giuseppe De Nittis ha saputo infondere nei colori del suo Colazione in giardino; il cui particolare, insieme al titolo, richiama quello che sarà uno dei temi del romanzo: una semplice cena apparecchiata su un prato, con persone delle quali alcune già si conoscono e altre si incontrano per la prima volta, con tutte le dinamiche che ne derivano. La vicenda è narrata in prima persona da uno degli ospiti e una caratteristica che salta all’occhio solo dopo parecchie pagine, e potrebbe anche capitare che qualche lettore non se ne accorga nemmeno dopo che ha terminato il romanzo, è che il protagonista narrante non ha un nome, ad eccezione di una persona nessun altro lo nomina mai, né è minimamente descritto. Ma del resto Daniele Giovagnoni non è nuovo a questo modo di fare: anche il personaggio principale del suo romanzo di esordio, Non nuoce gravemente alla salute, non aveva un nome né è stato mai descritto nel corso di quella narrazione. Potrebbe anche venire in mente che i due protagonisti siano la stessa, enigmatica persona.
E la cena inizia subito nel primo capitolo, dopo una dedica che strappa un sorriso, una localizzazione geografica della contestualizzazione molto sintetica e dopo che i partecipanti si sono presentati tra di loro. E proprio mentre si stanno mangiando gli antipasti, quello che al protagonista sembra un professore di filosofia in pensione, tale Giorgio, comincia a raccontare una storia che si rivelerà a dir poco surreale e andrà a costituire un’ulteriore linea narrativa del romanzo, che dal secondo capitolo è narrata da Giorgio stesso in prima persona (e ciò è sottolineato dall’espediente grafico di un cambio di font per tutta la durata del capitolo, che si avvicenderà nei successivi in modo alternato con quelli in cui è narrata la cena).
Per il lettore, l’interesse nella vicenda è suscitato da questa seconda linea narrativa che si alterna capitolo dopo capitolo alla descrizione della cena stessa, nella quale nel frattempo si susseguono portate che non sfigurerebbero a Masterchef e in cui vengono abbozzati gli approfondimenti delle conoscenze casuali tra i partecipanti, come potrebbe succedere in un qualsiasi incontro fra persone che non si sono mai viste prima. Una delle particolarità che l’autore ha riservato per il Lettore Ideale è costituita dal fatto che il tempo che ci vuole per leggere il romanzo è praticamente uguale a quello in cui si svolge la vicenda principale, cioè il tempo della fabula è uguale al tempo della lettura, e questi sono entrambi diversi dal tempo della fabula della seconda linea narrativa. Inoltre, le metonimie ricorrenti sulle quali il lettore lì per lì non ha motivo di soffermarsi (e così dev’essere…), vengono poi rammentate e comprese all’accadere del colpo di scena finale, una sola pagina prima della conclusione.
Un altro particolare degno di nota è la doppia circolarità concentrica di incipit ed excipit: la dedica che precede il romanzo viene ripresa nell’ultima riga della postfazione, e il paragrafo iniziale del primo capitolo, che un po’ toglie il fiato per la completa assenza di segni interpuntivi nell’arco di ben sette righe, viene ribattuto in modo simile e rovesciato nel paragrafo finale (si vede che l’autore è rimasto colpito da Per chi suona la campana).
Un romanzo strano, particolare, redatto con un linguaggio semplice e uno stile fluido e scorrevole, con poco spazio dedicato alle descrizioni o agli stati d’animo che emergono dagli atteggiamenti e dalle azioni dei personaggi, in un buon esempio di scrittura ellittica. Una narrazione dalla quale non riesci a staccarti prima di essere arrivato alla fine. E un vero e proprio racconto a sé stante è costituito dalla stessa postfazione, nella quale l’autore racconta la genesi e le traversie di questo libro.
Se si volessero proprio muovere delle critiche, a parte la relativa brevità (ma del resto ormai ci si è abituati ai romanzetti brevi di Erri De Luca…), si potrebbe riscontrare che alcuni dei personaggi non risultano caratterizzati a sufficienza, quanto meno quel tanto che basta per farli permanere nella memoria a lungo termine (ma ce n’è bisogno davvero?), e il cinismo del principale io narrante potrebbe risultare alle volte un tantino antipatico.   
Come editor ho apprezzato il fatto di come l’autore abbia saputo tradurre in pratica la maggior parte dei miei consigli e anche quelli di altre persone che hanno letto il testo nel suo stato embrionale (mi ha rivelato che un ringraziamento particolare lo rivolge a Max B., che a suo tempo ha mandato preziosi suggerimenti da molto lontano…), mentre un motivo di rammarico personale (come sempre!) consiste nel non aver visto, ancora una volta, la scritta “editing by Freereader” nel colophon.
Ma si sa, di questo si deve incolpare sempre l’Editore.
Il Lettore

sabato 13 giugno 2015

Avviso ai naviganti

Salve a tutti. Oggi non ho alcuna recensione da proporvi… (bene!) no, aspettate, su, non fate così, non vi disperate, capisco come la cosa sia terribile ma non dovete farne un dramma, non intendo proprio sparire del tutto, e continuerò a consigliarvi per le vostre scelte culturali… (ettipareva… ne andasse bene una!).




Il problema è che ultimamente ho letto e leggo poco perché sono oberato di una marea di cose da fare, di piacevoli e meno, e questa situazione continuerà almeno per un paio di mesi, e, per quanto ciò mi faccia piacere,  non riesco a trovare il tempo né di leggere né di scrivere recensioni (continuasse così per un annetto o due…). Di conseguenza sarò costretto a rallentare il ritmo di pubblicazione dei post e volevo avvertirvene prima (sai che dispiacereacc, vuoi dire che non smetterai del tutto?).
Ma non disperate (lo sto già facendo, non mi vedi?), perché sono in preparazione degli interventi davvero fantasmagorici! Sto completando la recensione dell’ultimo romanzo di un tipo che conosco e del quale ho fatto personalmente l’editing (ecco, comincia con le recensioni interessate…), e dal momento che tra pochi giorni Freereader compirà ben due anni (e c’è da festeggiare?), coglierò l’occasione per raccontarvi la vera storia della nascita di questo blog!
Ed è ovvio che, sia pure a ritmo rallentato, continuerò a leggere e commentare per voi le mie letture (questo te lo potevi risparmiare…) e ad angosciarvi con i quiz domenicali (no! Lo Squizzalibro no!).
Bene. Come si dice… non cambiate canale, ne vedrete delle belle!
Freereader

mercoledì 10 giugno 2015

Ecco la storia

Finora non ho mai recensito Daniel Pennac, pur avendo letto parecchi dei suoi libri. Anni fa avevo cominciato la saga di Malaussène dalla seconda avventura e subito ero corso a prendere la prima puntata e quindi tutte le successive, e Come un romanzo mi aveva quasi entusiasmato, per non parlare di Abbaiare stanca e La lunga notte del dottor Galvan.
Uno in gamba, il Pennac. Uno che sa scrivere. Quindi potrà sembrare strano che per inaugurare le recensioni sui suoi libri io abbia scelto l’unico suo che non mi sia piaciuto. Ma non c’è una ragione in particolare, se non il fatto che è l’ultimo che ho letto.




Qualcuno potrà anche dire che non sono stato capace di capirlo, al ché potrei ribattere che Pennac non ha saputo farsi capire bene, fatto sta che ho trovato Ecco la storia noiosissimo, tanto da non averlo nemmeno terminato.
Sì, possiamo andare a ricercare il romanzo nel metaromanzo (o viceversa), possiamo individuare le diverse facce dello scrittore, i ruoli, i personaggi, nei diversi sosia di questo esotico Dittatore, e possiamo anche cercare di farci piacere gli interscambi tra fantasia e realtà, tra vita vera e invenzione, ma certo che se lo scrittore ce lo avesse raccontato con qualche migliaio di parole in meno forse il tutto sarebbe stato più godibile.
Forse Pennac ha voluto metterci troppo senza riuscire a farsi capire in pieno, o parlando di se stesso è scivolato sullo strafare, o non ha voluto fare altro che divertirsi tenendo in poca considerazione il piacere del lettore.
Mi domando: se ciò che Pennac intendeva dire veramente comincia ad apparire solo dopo cinquanta o sessanta pagine, tutto questo popò di tediosissima introduzione, che ce l’ha messo a fare? Per farci arrivare ormai sfiniti a quando secondo lui dovrebbe cominciare il bello?
Il Lettore 

lunedì 8 giugno 2015

Breve storia di (quasi) tutto

Durante una giornata normale capitano quei momenti in cui uno non ha niente da fare, oppure nei quali il tempo a disposizione è troppo poco per qualsiasi cosa. In quei momenti di solito io leggo, e se la lettura di un libro nuovo è troppo impegnativa, allora prendo dalla libreria uno dei tanti libri che amo spesso rileggere, lo apro a caso, mi gusto quelle 4 o 5 pagine e lo ripongo senza neanche inserire un segnalibro.
Uno dei libri che in queste occasioni prendo spesso è Breve storia di (quasi) tutto, una via di mezzo tra un testo divulgativo e una storia delle scienze per profani, che Bill Bryson ha scritto nel 2003 dopo essersi reso conto di avere, mentre era in volo sopra l’Oceano Pacifico, la “consapevolezza di non sapere quasi nulla dell’unico pianeta sul quale mi sarebbe mai capitato di vivere”.




Sono considerazioni che ti fanno riflettere, e per Bryson il passare dal dire al fare è stato pressoché istantaneo: nel giro di un paio d’anni si è documentato, ha studiato e ha scritto questo compendio al quale ha messo il sottotitolo Capire le cose non è mai stato così facile. Una sciocchezzuola di quasi seicento pagine scritte fitte che ha vinto un mucchio di premi e ha venduto centinaia di migliaia di copie in tutto il mondo.
Di Bill Bryson avevo già parlato qui, e anche in questo libro, come negli altri, la sua verve non si smentisce e permette di gustarsi tutta la mole del volume con piacere. Bryson parte niente di meno che dal Big Bang per spiegare quanto più sia possibile di questa nostra terra: come si è formata, di cosa è fatta, chi la abita, dove sta andando, toccando materie scientifiche che vanno dall’astronomia alla chimica, dalla geologia all’antropologia, dall’evoluzionismo alla fisica nucleare alla biologia per finire con la meccanica delle particelle, Il tutto condito da brevi e divertenti biografie degli scienziati che hanno contribuito alle più  varie scoperte, e con il suo solito umorismo che ti rende leggeri anche concetti altrimenti ostici da mandare giù.
I soliti pignoli hanno riscontrato come l’autore sia incorso in qualche errore qua e là, ma da parte di un non-scienziato questo si può anche perdonare, e in ogni caso cosa vuoi che cambi, per uno a cui magari interessa sapere solo il concetto e l’ordine di grandezza, se la Terra pesa 6.000, o 6.500, miliardi di miliardi di tonnellate? Quello che conta è la divulgazione con divertimento, il permettere al maggior numero di persone possibile di avvicinarsi a concetti finora appannaggio solo degli scienziati; per i dati precisi ci si potrà sempre rivolgere alle pubblicazioni specializzate. L’importante è incuriosire per permettere di approfondire.
E ciò a Bryson è riuscito benissimo in tutti i suoi libri che conosco.
Questo è un testo che tutti dovrebbero leggere, soprattutto coloro (mi riferisco in particolare a molti statunitensi i cui  sistemi scolastici sono oltremodo viziati) che negano molte teorie scientifiche perché sono in contrasto con gli insegnamenti religiosi che sono loro stati inculcati. Da persona che ha sostenuto gli esami di paleontologia, a un avversore dell’evoluzionismo posso tranquillamente controbattere: io posso portarti decine di migliaia di prove di quanto sostengo; tu portamene una, una sola, che neghi i fatti in cui credo. Solo allora ne potremo riparlare.
Il Lettore scienziato

sabato 6 giugno 2015

Storie di gatti

Ieri mattina alle sette, non appena disattivata la modalità aereo del telefono, mi è arrivato un messaggio spedito nel cuore della notte con il quale una mia cara amica mi informava di aver dato dimora a due carinissime bestiacce pulciose simili alle due che mi stanno gironzolando intorno implorandomi di dar loro da mangiare.
Non voglio nemmeno lontanamente paragonarmi a qualche blogger di mia conoscenza esperto di gatti, ma anch’io provo un certo ― incomprensibile ― trasporto verso questi inconcludenti ammassi di pelo, e facendo alla mia amica i più sentiti auguri di felice convivenza mi viene di consigliarle una lettura che ho ripescato dai meandri della mia libreria, in modo da aiutarla a risollevare l’animo quando i due amorevoli, timidi batuffoli che si è portata in casa cominceranno a pisciarle sul letto, a strapparle i copridivani, a lasciarle profonde unghiate sugli amati arredi, a svegliarla alle cinque perché hanno fame, a portarle prede mezze morte (bisce, scorpioni, uccellini…) in cerca di una lode e a costellarle il pavimento (letto, divani, tavoli…) di ciuffi di pelo.
Il tutto nella speranza che, visto il suo caratterino, non li scaraventi dalla finestra prima del tempo.




In queste Storie di gatti, le cui prime risalgono agli anni ’70, James Herriot infonde tutta la sua esperienza di veterinario e l’amore per gli animali che lo hanno reso famoso dopo aver scritto libri come Cose sagge e meravigliose e Creature grandi e piccole. Il volumetto raccoglie una decina di racconti a tema unico, di diverse lunghezze, raccontati con il consueto tono discorsivo da vecchio narratore di Herriot e derivanti con tutta probabilità da esperienze reali tratte dal suo percorso lavorativo. Lui stesso dice: “I gatti sono stati una delle ragioni principali per cui ho scelto la carriera di veterinario”, e continua esternando lo stupore provato nel constatare che nel corso di studio in medicina veterinaria i gatti non erano minimamente contemplati. Mi auguro che ciò sia rimasto circoscritto agli studi universitari nell’Inghilterra degli anni ’30…
Fatto sta che l’autore mette insieme una serie di storielle delle quali qualcuna è divertente e altre strappalacrime, con vicende che più o meno tutti i possessori di gatti hanno potuto constatare per esperienza personale ma che non per questo sono meno piacevoli da leggere o rileggere. Si va dall’arrivo del gatto in casa al suo addio definitivo, dai più svariati tipi di convivenza ai rapporti con gli altri animali, fino al riscontrare come curando il gatto si può curare anche il suo proprietario.
Nel complesso una lettura carinissima, che si legge con piacere e lascia la bocca buona.
Riservata personale: sì, certo, non mancherò, lo inserirò di sicuro nella prossima mandata di prestiti, stai tranquilla. Ma intanto volevo raccontarti che proprio l’altra mattina, mentre stavo portando la sveglia e il caffè a letto alla consorte, avevo notato la strana presenza di una scopa appoggiata al tavolo della sala. Mistero svelato quando sorseggiando il caffè nel dormiveglia la consorte mi fa: “Stai attento in sala, dovrebbe esserci in giro il forse-cadavere di un topo…”. Ecco, quando ti accadrà passaci sopra, ti prego…
Il Lettore gattofilo

giovedì 4 giugno 2015

Aquila di sangue

Della serie: se un libro te lo offrono già scontato, qualche problema ce l’ha. E se in quarta di copertina paragonano il protagonista a Salvo Montalbano o a Pepe Carvalho, qualche dubbio viene. E se lo trovi nella bancarella dell’usato a pochi spicci, ciò sta a significare che di valore intrinseco non ne ha nemmeno quel tanto che basta a giustificarne la rivendita alla metà del prezzo di copertina.




E infatti questo Aquila di sangue si riduce a un thrillerino senza alcunché di entusiasmante, di quelli che due minuti dopo che li hai letti non ti ricordi nemmeno di cosa trattassero. Sì, si leggerà anche, ma non ne vale proprio la pena, e a pensarci bene ti lascia anche con l’amaro in bocca se pensi alla ricerca esasperata da parte di certi autori di gialli di situazioni inverosimili e del colpo di scena più fantasmagorico per cercare di impressionare il lettore. Bah!
Di che parlava? Ah, sì, qualcosa mi ricordo anche, ma ve lo risparmio. Non la facciamo tanto lunga che non merita.
Paragonare ‘sto Jan Faber della polizia di Amburgo a Montalbano o a Carvalho… ma andiamo! Certi editori non sanno più cosa inventarsi…
Il Lettore 

martedì 2 giugno 2015

Tiratore scelto

Uno degli aspetti della mia vita di cui non vado molto fiero è quello di essere stato un cacciatore. Va bene, è successo tra i miei dodici e i quindici anni, quindi più di quarant’anni fa e in quell’età in cui si capisce ben poco, e non avevo (ovviamente) nemmeno la licenza, ma le mie alzatacce alle tre di notte insieme a mio padre le ho fatte, e di prede innocenti ne ho riportate a casa. Purtroppo. Di quel breve periodo mi è rimasto un rimorso sedimentato, ma anche il piacere di imbracciare un fucile, che in seguito ho sviluppato in un’ottima capacità di centrare bersagli inanimati come sagome lontane nei poligoni di tiro o paglioni nei campi di tiro con l’arco. E al di là della fatica, tra i pochi ricordi piacevoli dell’anno passato sotto le armi ci sono quelli di sparare con il Garand 7.62  e anche il portarmi a spasso la mitragliatrice pesante Browning M2 calibro .50.
Questo per far capire come questo libro non avrebbe potuto non piacermi.




Questa di Charles Henderson è la biografia romanzata di Carlos Hathcock, il prototipo e il più famoso dei tiratori scelti dell’esercito americano. Dei cosiddetti cecchini, degli American Snipers, Carlos Hathcock è quello vero.
Poi, dopo che Chris Kyle ha scritto la sua autobiografia (American sniper: The Autobiography of The Most American Sniper in U.S. Military History) basandosi su questo libro di Henderson e ricalcando la figura di Hathcock, e dopo che Clint Eastwood ne ha tratto il film American sniper che è diventato famoso in tutto il mondo, allora Kyle ha soppiantato Hathcock come “il più letale” mai esistito. Merito della pubblicità, della risonanza mediatica, dell’afflusso di quattrini e, non ultimo, del fatto che Kyle è stato realmente ammazzato da un commilitone dopo aver dato il libro alle stampe (Hathcock è morto di sclerosi multipla a 56 anni).
Chris Kyle era un membro dei Navy Seals e ha operato in Iraq, Carlos Hathcock era un Marine che ha combattuto in Vietnam, subito dopo la decisione dei comandi statunitensi di migliorare il rendimento delle unità operative ottimizzando le capacità di essere letali. Alla fine della seconda guerra mondiale ci si era accorti di come la media di vittime tra i nemici fosse di una ogni 15.000 (quindicimila!) proiettili esplosi. Su questa base gli alti papaveri decisero che c’era troppo spreco e intrapresero una campagna votata al risparmio sul peso: sostituirono il Garand (calibro 7.62 ― e le dismissioni furono vendute all’esercito italiano… NdF) con l’M16 (calibro 5.56), in modo da consentire al fantaccino di potersi caricare di più munizioni, e istituirono dei corsi specialistici, tanto per cominciare tra i Marines, per insegnare ai più dotati a sparare ancora meglio. Il motto che adottarono fu: one shot, one kill. Erano nati gli american snipers. Questo per portarsi dietro meno pallottole.
Al di là del messaggio esplicito di entrambi i libri e del film, che altro non è se non quello dell’esaltazione dell’eroe americano e per questo criticabile quanto si vuole, nella biografia di Henderson si può riscontrare una minore enfatizzazione di questo concetto, con un tentativo di guardare alla vita di Hathcock anche da un punto di vista più umano. L’autore cerca più volte di spiegare come quello che faceva il protagonista non fosse altro che un “lavoro”. Lavoro che lo ha portato ad uccidere più di cento esseri umani, per citare solo quelli “riconosciuti”.
Nemici quanto si vuole, era una guerra eccetera eccetera, ma lasciamo perdere queste considerazioni buoniste che qui valutiamo il libro, e i giudizi etici o morali delle ragioni e delle conseguenze di una guerra le lasciamo ad altre sedi.
Henderson parte dall’infanzia rurale di Hathcock e cerca di spiegare come le sue doti fisiche e mentali lo hanno fatto arrivare ad essere uno tra i più temuti nemici dei vietnamiti, capace di strisciare nel fango per tre giorni interi coprendo la distanza di un solo chilometro per essere nel posto giusto al momento giusto, o di centrare un bersaglio alla inimmaginabile distanza di 2200 metri (provate a colpire una mela situata a “soli” 100 metri da voi, poi ne riparliamo). E la scena del tiratore che uccide il cecchino nemico infilando il proiettile proprio al centro dell’ottica montata sul suo fucile, scena che avrete visto diverse volte (in almeno sette film, e poi fumetti, cartoni animati e serie televisive), è stata ripresa da un episodio accaduto proprio ad Hathcock.  Penna bianca (era il suo soprannome tra i vietcong) era il soldato americano con la taglia più alta in assoluto sopra la testa. E l’autore prosegue poi con il dopo-Vietnam, con gli svariati problemi sia di salute che psicologici dei quali Hathcock è stato affetto, fino a dare il quadro completo di una vita vissuta all’insegna della non-normalità.
Un bel libro, scritto bene e interessante dall’inizio alla fine che mostra un occhio di riguardo nel voler far apparire Hathcock non tanto un uomo qualunque, quanto un uomo coerente e sensibile, e degno di considerazione nonostante la sua occupazione retribuita fosse quella di uccidere gente. Capace anche di gesti altruistici, come quando l’anfibio sul quale viaggiava esplose su una mina e lui salvò dalla morte sette soldati che viaggiavano con lui, pur avendo il 90% del corpo ricoperto da ustioni gravi che gli causarono la fine della carriera militare e parecchi anni di sofferenze. La bravura di Henderson sta nel fatto che, senza indulgere nell’esaltazione, riesce a renderti simpatico il protagonista nonostante quello che egli faccia sia esecrabile.
Il Lettore