Sono passati centoquindici
anni dalla morte prematura di Oscar
Wilde, ma leggendo questi racconti ci si stupisce di quanto la sua prosa
sia fresca e attuale, arguta, ironica e densa sia di humour che di verità profonde,
contenuta in uno stile squisito seppur diverso, più rapido e meno frivolo (sto
parlando dello stile, non dei contenuti…) rispetto a quello del suo romanzo più
famoso.
A leggere alcuni dei nostri
scrittori contemporanei viene da domandarsi se lo abbiano mai sentito nominare…
(Wilde chi? Ah, sì… Dorian.).
Il
fantasma di Canterville,
il racconto che dà il titolo alla raccolta, è una parodia dei racconti di
fantasmi tanto cari al genere gotico
che all’epoca andava veramente forte, e insieme una presa in giro sia della
nobiltà inglese che dei loro cugini americani. Una parentela non scevra da
imbarazzanti implicazioni: “… la si
sarebbe potuta portare ad esempio per avvalorare la tesi che gli inglesi
oggigiorno hanno veramente tutto in comune con gli americani, tranne,
naturalmente, la lingua.”
Questo povero fantasma di un
nobile uxoricida (secondo lui aveva
avuto ottime ragioni per uccidere la moglie: cucinava malissimo e non gli
stirava bene le gorgiere… grande Wilde!), che per secoli ha terrorizzato gli
abitanti del castello con le sue macabre apparizioni, viene ignorato, deriso e
sbeffeggiato da un’intera famiglia di pragmatici yankees fino ad essere atterrito a sua volta da un pupazzo
raffigurante proprio un fantasma costruito dai figli più piccoli. Ma poi la
storia si chiude in modo piacevole, sentimentale e misterioso.
Così come gli altri racconti,
enigmatici, con quel pizzico di
sovrannaturale che stimola la curiosità, e la classe che contraddistingueva
questo grande scrittore dalla vita sfortunata. Il suo acume emerge quasi da
ogni riga, andando a costituire una sequela di quelle battute che oggi riempiono
tutte le raccolte di aforismi: “Gli attori sono esseri fortunati, possono
scegliere tra tragedia e commedia, soffrire o gioire, ridere o piangere. Nella
vita reale questo non accade: la maggior parte di noi è costretta a recitare
una parte senza averne i requisiti adatti. (…) Il mondo è un palcoscenico, ma i
ruoli son mal distribuiti.”
Oppure, solo per citarne
alcune altre:
“La correttezza non è mai interessante.”
“Non era davvero un gran ché. In vita sua non aveva mai detto una cosa
che fosse brillante o malvagia.”
“Rimase stupito dalla discrepanza tra il vuoto ottimismo del giorno e i
fatti crudi della vita. Era ancora molto giovane.”
“Le donne non vanno capite, ma amate.”
Questi quattro racconti sono
più “adulti” rispetto alle altre raccolte dal tono più immaginario e fiabesco che
Wilde ha scritto per i suoi figli ma anche per tutti i ragazzi in genere, e
nell’invenzione si può anche trovare un riferimento stretto alla società
dell’epoca e a tutte le magagne che lo scrittore vedeva in essa.
Un aspetto che mi ha
piacevolmente colpito è il tono con cui Wilde descrive i rapporti tra uomini e
donne, dal fidanzamento al matrimonio condizionati dalle regole dell’establishment britannico, nei quali ho
ritrovato una straordinaria somiglianza con gli stessi rapporti vergati però
parecchie decine di anni dopo dalla penna di P. G. Wodehouse: sicuramente quest’ultimo era un profondo
conoscitore di Wilde e lo ammirava talmente tanto da ricalcarne lo stile.
Mi è dispiaciuto invece il
fatto che ho letto i racconti in un’edizione diversa rispetto a quella della
quale ho inserito la copertina di cui sopra nella quale è pubblicizzata anche
la prefazione di Jorge Luis Borges:
la mia copia non la conteneva, e mi avrebbe fatto piacere invece leggere anche
i commenti a riguardo del grande scrittore argentino.
Il Lettore