venerdì 9 settembre 2016

La sostanza del male

Una mattina della settimana scorsa stavo prendendo un caffè con una lettrice di questo blog che a un certo punto mi ha detto: “Hai letto qualcosa di pessimo ultimamente? Sono molto più divertenti le recensioni in cui stronchi qualche romanzo che quelle dei libri che ti sono piaciuti.”
Sono ammutolito. Tu cerchi di divulgare un po’ di cultura senza secondi fini e scappa fuori che sei più divertente se massacri qualcuno. Forse è per questo che le trasmissioni televisive culturali non riscuotono molta audience. Ho ribattuto che non lo faccio apposta e cerco di giudicare ciò che leggo nel modo più obiettivo possibile, ma forse in caso di pareri negativi il mio lato sadico prende il sopravvento e permea il giudizio di quel cinismo che sarebbe fuori luogo in una recensione positiva. E poi in questi ultimi tempi mi sono capitati buoni romanzi e mi auguro, le ho detto, di poter continuare a scrivere recensioni che ti divertano un po’ meno eccetera eccetera.
Poi, neanche a farlo apposta, lo stesso pomeriggio mi è capitato tra le mani questo:




Libro pompatissimo, pubblicazione preceduta e seguita da un sostenuto battage pubblicitario, risse per accaparrarsi i diritti di pubblicazione all’estero eccetera, La sostanza del male è (avrebbe voluto essere) un thriller ambientato sulle Dolomiti che in tutta verità non avevo alcuna curiosità di leggere. Poi mi è capitato tra le mani in forma digitale e già che ce l’avevo l’ho iniziato. Devo dire che all’inizio è anche piacevole: ritmo agile e veloce, sembrava promettere bene.
Ma già solo a pagina 23 la prima toppata: “Divoravo crostate, strudel e quant’altro.
Quant’altro? Quant’altro???!!! Ho sempre odiato questa locuzione molto cara ai politicantucoli sinistrorsi che indica la chiara mancanza di voglia di faticare per cercare altri termini inerenti al concetto, e se purtroppo, anche se vorresti, non puoi stare a criticare tutti coloro che la usano parlando, da uno che vuole essere uno scrittore non la accetti proprio, perché è un chiaro indice della diffusa superficialità giovanile e contemporanea. Dimmelo tu, cosa divoravi insieme a crostate e strudel, non è questo che rientra fra le cose che un buon scrittore deve lasciar intuire.
Purtroppo a questo punto la frittata è fatta. È bastata una sola parola (due) per farmi guardare il romanzo con altri occhi. Da pag. 23 in avanti quella storia che era partita bene si è trasformata nel film La sottile linea rossa: interminabile quando tu non vedi l’ora che finisca, perché vuoi sì vedere come va a finire, ma non ti piace già più e ti mette pensiero ogni volta che lo apri per proseguire. E come il film, il romanzo non finisce mai.
E allora cominci a notare tutto: superficialità nella contestualizzazione che avresti apprezzato un poco più approfondita, stile asettico da scuola di scrittura creativa dopo il passaggio di un buon editor, continue ripetizioni di concetti già trattati, tormentoni che finiscono con l’essere irritanti (quante lettere ha la parola “palla”?) anche quelli insegnati nelle scuole di scrittura creativa, dialoghi fatti con lo stampino.
Ecco, i dialoghi. Il romanzo è fatto soprattutto di dialoghi tra il protagonista e svariati altri personaggi, dialoghi che occupano un buon settanta per cento delle pagine. Il problema è che tra l’uno e l’altro personaggio nel discorso non cambia assolutamente nulla e sembra di stare a sentir parlare sempre la stessa persona. Nessuna differenziazione nello stile, nel ritmo del parlato, nessuna caratterizzazione che renda quella tal persona immediatamente distinguibile dalle altre: tutti uguali, sembra che il protagonista parli sempre con se stesso.
Ma in compenso il romanzo è ricco di enfatizzazione per cercare (senza riuscire) di creare un’atmosfera di terrore. Per fare un esempio vi riporto questo brano nel quale anche gli “a capo” sono sistemati in modo da far colpo:
 “Infine.
 L’urlo di Dio. La valanga ad annientare il cielo.
 Vattene!
 Fu a quel punto che vidi. Quando rimasi solo, al di là del tempo e dello spazio, io vidi.
 Il buio.
 Il buio totale. Ma non morii. Oh no. La Bestia si prese gioco di me. Mi lasciò vivere. La Bestia che adesso sussurrava: «Resterai con me per sempre, per sempre...»
 Non mentiva.
 Una parte di me è ancora lí.
Ma per favore! Effetti speciali e parole buttate lì per fare del sensazionalismo che neanche nel film Batman contro Superman.
A proposito di una delle “Bestie” che l’autore tira in ballo: a un certo punto viene spiegato il concetto di “nicchia ecologica” per giustificare la possibile presenza di un fossile vivente di duecento milioni di anni fa che potrebbe essere sopravvissuto all’interno appunto di una nicchia ecologica creatasi in un ambiente particolare delle Dolomiti. Come concetto sarebbe anche corretto, il problema è che duecento milioni di anni fa le Alpi non erano nemmeno lontanamente vicine all’inizio della loro formazione, e di conseguenza quelle nicchie al cui interno l’animale avrebbe dovuto essere sopravvissuto non esistevano proprio. “Piccololapsus.
E non posso parlare del colpo di scena finale, perché nel caso doveste leggere il romanzo non posso togliervi il gusto (!) della sorpresa. Sappiate comunque che anche questo non mi ha per niente soddisfatto. Dopo che me ne sono disamorato ho terminato il libro a fatica sperando che finisse il prima possibile, e quando sono finalmente riuscito ad arrivare in fondo l’ho archiviato con un piacere molto lontano da quello che ti procura una buona lettura.
Un romanzo che potrebbe forse piacere a quelli ai quali è piaciuto La verità sul caso Harry Quebert: li ho trovati molto simili nella loro inconsistenza. Ottima leggibilità, ma quando vai a stringere… Un romanzo giovanile scritto per giovani, per quelli che non leggono, e quindi non riescono a distinguere una cosa veramente buona da una che vuole solo apparire tale.
Il Lettore (con “qualche” conoscenza di paleontologia)

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