Una mattina della settimana
scorsa stavo prendendo un caffè con una lettrice
di questo blog che a un certo punto
mi ha detto: “Hai letto qualcosa di pessimo ultimamente? Sono molto più
divertenti le recensioni in cui stronchi
qualche romanzo che quelle dei libri che ti sono piaciuti.”
Sono ammutolito. Tu cerchi di
divulgare un po’ di cultura senza
secondi fini e scappa fuori che sei più divertente se massacri qualcuno. Forse
è per questo che le trasmissioni televisive culturali non riscuotono molta audience. Ho ribattuto che non lo faccio
apposta e cerco di giudicare ciò che leggo nel modo più obiettivo possibile, ma
forse in caso di pareri negativi il mio lato sadico prende il sopravvento e
permea il giudizio di quel cinismo che sarebbe fuori luogo in una recensione
positiva. E poi in questi ultimi tempi mi sono capitati buoni romanzi e mi
auguro, le ho detto, di poter continuare a scrivere recensioni che ti divertano
un po’ meno eccetera eccetera.
Poi, neanche a farlo apposta,
lo stesso pomeriggio mi è capitato tra le mani questo:
Libro pompatissimo, pubblicazione
preceduta e seguita da un sostenuto battage
pubblicitario, risse per accaparrarsi i diritti di pubblicazione all’estero
eccetera, La sostanza del male è (avrebbe
voluto essere) un thriller ambientato
sulle Dolomiti che in tutta verità non avevo alcuna curiosità di leggere. Poi
mi è capitato tra le mani in forma digitale e già che ce l’avevo l’ho iniziato.
Devo dire che all’inizio è anche piacevole: ritmo agile e veloce, sembrava
promettere bene.
Ma già solo a pagina 23 la
prima toppata: “Divoravo crostate, strudel e quant’altro.”
Quant’altro? Quant’altro???!!! Ho sempre odiato questa locuzione molto cara ai
politicantucoli sinistrorsi che indica la chiara mancanza di voglia di faticare
per cercare altri termini inerenti al concetto, e se purtroppo, anche se
vorresti, non puoi stare a criticare tutti coloro che la usano parlando, da uno
che vuole essere uno scrittore non la accetti proprio, perché è un chiaro
indice della diffusa superficialità giovanile e contemporanea. Dimmelo tu, cosa
divoravi insieme a crostate e strudel, non è questo che rientra fra le cose che
un buon scrittore deve lasciar intuire.
Purtroppo a questo punto la frittata è fatta. È bastata una sola
parola (due) per farmi guardare il romanzo con altri occhi. Da pag. 23 in
avanti quella storia che era partita bene si è trasformata nel film La sottile linea rossa: interminabile
quando tu non vedi l’ora che finisca, perché vuoi sì vedere come va a finire,
ma non ti piace già più e ti mette pensiero ogni volta che lo apri per
proseguire. E come il film, il romanzo non finisce mai.
E allora cominci a notare tutto: superficialità nella
contestualizzazione che avresti apprezzato un poco più approfondita, stile
asettico da scuola di scrittura creativa dopo il passaggio di un buon editor, continue ripetizioni di concetti
già trattati, tormentoni che finiscono con l’essere irritanti (quante lettere
ha la parola “palla”?) anche quelli
insegnati nelle scuole di scrittura creativa, dialoghi fatti con lo stampino.
Ecco, i dialoghi. Il romanzo è fatto soprattutto di dialoghi tra il
protagonista e svariati altri personaggi, dialoghi che occupano un buon
settanta per cento delle pagine. Il problema è che tra l’uno e l’altro
personaggio nel discorso non cambia assolutamente nulla e sembra di
stare a sentir parlare sempre la stessa persona. Nessuna differenziazione nello stile, nel ritmo del parlato, nessuna
caratterizzazione che renda quella tal persona immediatamente distinguibile
dalle altre: tutti uguali, sembra che il protagonista parli sempre con se
stesso.
Ma in compenso il romanzo è
ricco di enfatizzazione per cercare
(senza riuscire) di creare un’atmosfera di terrore. Per fare un esempio vi
riporto questo brano nel quale anche gli “a capo” sono sistemati in modo da far
colpo:
“Infine.
L’urlo di Dio. La valanga ad annientare il
cielo.
Vattene!
Fu a quel punto che vidi. Quando rimasi solo,
al di là del tempo e dello spazio, io vidi.
Il buio.
Il buio totale. Ma non morii. Oh no. La Bestia
si prese gioco di me. Mi lasciò vivere. La Bestia che adesso sussurrava:
«Resterai con me per sempre, per sempre...»
Non mentiva.
Una parte di me è ancora lí.”
Ma per favore! Effetti
speciali e parole buttate lì per fare del sensazionalismo
che neanche nel film Batman contro
Superman.
A proposito di una delle
“Bestie” che l’autore tira in ballo: a un certo punto viene spiegato il
concetto di “nicchia ecologica” per
giustificare la possibile presenza di un fossile
vivente di duecento milioni di anni fa che potrebbe essere sopravvissuto
all’interno appunto di una nicchia ecologica creatasi in un ambiente
particolare delle Dolomiti. Come concetto sarebbe anche corretto, il problema è
che duecento milioni di anni fa le Alpi non erano nemmeno lontanamente vicine
all’inizio della loro formazione, e
di conseguenza quelle nicchie al cui interno l’animale avrebbe dovuto essere
sopravvissuto non esistevano proprio. “Piccolo” lapsus.
E non posso parlare del colpo
di scena finale, perché nel caso doveste leggere il romanzo non posso togliervi
il gusto (!) della sorpresa. Sappiate comunque che anche questo non mi ha per
niente soddisfatto. Dopo che me ne sono disamorato
ho terminato il libro a fatica sperando che finisse il prima possibile, e quando
sono finalmente riuscito ad arrivare in fondo l’ho archiviato con un piacere
molto lontano da quello che ti procura una buona lettura.
Un romanzo che potrebbe forse
piacere a quelli ai quali è piaciuto La verità sul caso Harry Quebert: li ho trovati molto simili nella loro
inconsistenza. Ottima leggibilità, ma quando vai a stringere… Un romanzo
giovanile scritto per giovani, per quelli che non leggono, e quindi non riescono a distinguere una cosa veramente
buona da una che vuole solo apparire tale.
Il Lettore (con “qualche”
conoscenza di paleontologia)
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