Trovarsi “Sotto il culo della rana in fondo a una
miniera di carbone”, vale a dire il titolo di questo romanzo, è un modo di dire
ungherese che sta a significare il
trovarsi in una condizione di sfiga
assoluta, in pratica l’aver toccato proprio il fondo di una certa
situazione.
Un po’ come l’odierna
situazione politica di casa nostra.
Tibor
Fischer è ritenuto uno dei
nuovi geni della letteratura inglese. Di genitori ungheresi, esuli in
Inghilterra in seguito alla rivoluzione antisovietica del 1956 (come si sa
finita nel sangue), ha esordito nel 1992 con questo romanzo che ha subito
conseguito un meritato successo sia
di critica che di pubblico.
Sotto
il culo della rana
racconta le vicende di un gruppetto di giovani sul finire degli anni ’40 del
secolo scorso, a cavallo tra la dominazione nazista e quella sovietica
dell’Ungheria, un periodo in cui la gioventù ungherese non aveva altra scelta che decidere se essere
trucidata dai tedeschi, fucilata dai russi o morire di fame.
I nostri eroi decidono di
riporre le loro speranze nella pallacanestro
a livello professionistico, il cui vantaggio più grande era quello di evitare
loro di svolgere il servizio militare se avessero giocato bene quel minimo
sufficiente per riconoscere il cesto proprio da quello degli avversari, e per
allontanare i patemi d’animo cercano 1) di fare
sesso con il più alto numero possibile di ragazze “come diceva Pataki, se la fellatio
fosse mai diventata una specialità olimpica l’Ungheria avrebbe fatto il pieno
di medaglie”; 2) di riuscire ad abbuffarsi
di cibo alla minima occasione per far fronte a una carestia cronica “dovevano aver rastrellato tutto quello che
c’era da mangiare nel raggio di quindici chilometri. A Giury dispiaceva
soltanto che il suo stomaco non ce la facesse più, avesse messo sulla porta un
biglietto che diceva «sono a pranzo» e fosse uscito, rifiutandosi di continuare”.
Certo, il fatto che abbiano
preso l’abitudine di viaggiare nel
corso delle trasferte completamente nudi
li rende un pochino originali, ma questo non impedisce loro di soddisfare né il
punto 1 né il punto 2, né di realizzare un numero sufficiente di canestri per i
loro scopi.
Tutte le continue scenette in
cui incappa il gruppetto di cestisti sono solo una scusa per l’autore di raccontare a modo suo la rivoluzione ungherese, innescata da coloro che non ne potevano più
delle magagne del comunismo, e la sanguinosa repressione che ne è seguita da
parte dell’Unione Sovietica. Le gag si succedono una dopo l’altra ad ogni pagina, raccontate sempre con un cinismo
estremamente distaccato (alla Fantozzi,
appunto), a cui però fa sempre da sfondo la realtà nuda e cruda di un paese
sprofondato nell’abisso.
Un libro che mi ha fatto
ridere e ho apprezzato, ma non del tutto. Un po’ per il fatto che le gag a ritmo serrato dopo un po’ finiscono
con l’annoiarti, e un po’ perché leggere tutti quei nomi ungheresi, da quelli propri
dei personaggi a quelli dei toponimi, è fastidioso come leggere quelli
scandinavi, con tutte quelle consonanti che se provi a sillabarli ti fanno
arrotare la lingua.
Però mi ha fatto venire la
curiosità di leggere altri scritti dello stesso autore, e visto che il mio
editor me ne ha gentilmente forniti altri due, tra i quali quello che in molti
dicono sia il miglior romanzo di Tibor
Fischer, penso che lo incontrerete di nuovo su questi schermi.
Il Lettore
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