martedì 5 settembre 2017

Sotto il culo della rana

Trovarsi “Sotto il culo della rana in fondo a una miniera di carbone”, vale a dire il titolo di questo romanzo, è un modo di dire ungherese che sta a significare il trovarsi in una condizione di sfiga assoluta, in pratica l’aver toccato proprio il fondo di una certa situazione.
Un po’ come l’odierna situazione politica di casa nostra.




Tibor Fischer è ritenuto uno dei nuovi geni della letteratura inglese. Di genitori ungheresi, esuli in Inghilterra in seguito alla rivoluzione antisovietica del 1956 (come si sa finita nel sangue), ha esordito nel 1992 con questo romanzo che ha subito conseguito un meritato successo sia di critica che di pubblico.
Sotto il culo della rana racconta le vicende di un gruppetto di giovani sul finire degli anni ’40 del secolo scorso, a cavallo tra la dominazione nazista e quella sovietica dell’Ungheria, un periodo in cui la gioventù ungherese non aveva altra scelta che decidere se essere trucidata dai tedeschi, fucilata dai russi o morire di fame.
I nostri eroi decidono di riporre le loro speranze nella pallacanestro a livello professionistico, il cui vantaggio più grande era quello di evitare loro di svolgere il servizio militare se avessero giocato bene quel minimo sufficiente per riconoscere il cesto proprio da quello degli avversari, e per allontanare i patemi d’animo cercano 1) di fare sesso con il più alto numero possibile di ragazze “come diceva Pataki, se la fellatio fosse mai diventata una specialità olimpica l’Ungheria avrebbe fatto il pieno di medaglie”; 2) di riuscire ad abbuffarsi di cibo alla minima occasione per far fronte a una carestia cronica “dovevano aver rastrellato tutto quello che c’era da mangiare nel raggio di quindici chilometri. A Giury dispiaceva soltanto che il suo stomaco non ce la facesse più, avesse messo sulla porta un biglietto che diceva «sono a pranzo» e fosse uscito, rifiutandosi di continuare”.
Certo, il fatto che abbiano preso l’abitudine di viaggiare nel corso delle trasferte completamente nudi li rende un pochino originali, ma questo non impedisce loro di soddisfare né il punto 1 né il punto 2, né di realizzare un numero sufficiente di canestri per i loro scopi.
Tutte le continue scenette in cui incappa il gruppetto di cestisti sono solo una scusa per l’autore di raccontare a modo suo la rivoluzione ungherese, innescata da coloro che non ne potevano più delle magagne del comunismo, e la sanguinosa repressione che ne è seguita da parte dell’Unione Sovietica. Le gag si succedono una dopo l’altra ad ogni pagina, raccontate sempre con un cinismo estremamente distaccato (alla Fantozzi, appunto), a cui però fa sempre da sfondo la realtà nuda e cruda di un paese sprofondato nell’abisso.
Un libro che mi ha fatto ridere e ho apprezzato, ma non del tutto. Un po’ per il fatto che le gag a ritmo serrato dopo un po’ finiscono con l’annoiarti, e un po’ perché leggere tutti quei nomi ungheresi, da quelli propri dei personaggi a quelli dei toponimi, è fastidioso come leggere quelli scandinavi, con tutte quelle consonanti che se provi a sillabarli ti fanno arrotare la lingua.
Però mi ha fatto venire la curiosità di leggere altri scritti dello stesso autore, e visto che il mio editor me ne ha gentilmente forniti altri due, tra i quali quello che in molti dicono sia il miglior romanzo di Tibor Fischer, penso che lo incontrerete di nuovo su questi schermi.
Il Lettore

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